Editoriali

La conferma di cui non c’era bisogno

Il pesante gesto di Bruno Andres Doglioli nei confronti dell’arbitro Maria Beatrice Benvenuti ha riportato il rugby sulle prime pagine dei giornali. O ha comunque fatto parlare di palla ovale anche chi di solito non se ne occupa.

Non è di per sé un bene, a prescindere dal gesto, inqualificabile. Inaccettabile di suo, per la sua inopportunità, il mancato tempismo, il destinatario del placcaggio: la FIR non ha mancato di intervenire prontamente, a condannare il gesto e soprattutto squalificare il giocatore per tre anni.

Come ho scritto, quanto fatto sul campo dal giocatore del Rangers Rugby Vicenza non ha bisogno di ulteriore commento. Non passi questo mio silenzio come un minimizzare, figurarsi accettare, un’azione simile: è che online s’è visto ovunque il video, chi ha avuto modo di vedere ha anche potuto commentare e s’è potuto esprimere.

Il problema, culturale, è che il fattaccio ha scatenato i commentatori da tastiera. I leoni, pronti a scatenarsi contro l’obiettivo di turno; nel tentativo di essere anti-mainstream per forza, diventandolo di conseguenza: avete visto? Il rugby non è lo sport da signori che tutti dicevano, anzi.

Anzi: non è solo il calcio a essere violento. E così via.

Come sopra: leoni.

Commentatori che aspettano al varco e, appena l'”avversario” sbaglia, sono pronti a pugnalarlo.

È un problema culturale.

Sono gli stessi che non distinguono un mediano d’apertura da un pilone, ma sono sempre sul pezzo quando l’Italia perde nel Sei Nazioni.

Non sanno che gli azzurri perdono spesso anche e soprattutto perché nel rugby – a differenza che nel calcio e in altri sport – contro le nazionali di qualità medio-bassa non ci giochi proprio, e ti confronti solo coi top team. Ma sono lì, li vedi sempre: hanno costruito una rivalità basata sul nulla, sentendosi minacciati non so da cosa.

Ammetto che, da un certo punto di vista, la retorica del rugby ha stancato. Ma da qualche tempo le cose si sono calmate, si parla molto meno di sconfitte a testa alta e anzi, si processano Parisse e compagni un giorno sì e l’altro pure. Non senza ragione, anzi: su queste pagine abbiamo spesso messo in discussione la chiusura del Sei Nazioni a nazionali in crescita come Georgia, Romania e Stati Uniti, chiedendoci cosa distinguesse ormai l’Italia da queste realtà.

Ha contribuito, alla nascita e crescita dei leoni da tastiera di cui sopra, anche un certo modo di pensarsi, da parte del rugby; da parte di chi lo pratica: siamo diversi è diventato siamo migliori. Certo, è innegabile che una partita internazionale all’Olimpico di Roma offre un’esperienza – come tifo e modo di vivere la partita – diversa rispetto a quella di tante partite di calcio professionistico. Forse perché parla meno alla pancia della gente o, essendo meno sport-mania, ci tocca solo quegli 80′ ogni paio di settimane: siamo meno in tensione ed è normale vivere il match accanto agli scozzesi o agli irlandesi, offrirci birra a vicenda, fare amicizia.

Ma il rugby non è diverso dagli altri sport, tutt’altro. È una disciplina che tocca molte corde emozionali, molto agonistica, per quanto suoni male. Disciplina il contatto fisico proprio perché è un contatto molto intenso e devi contenerlo, disciplinarlo. Si è dato un codice di comportamento e delle abitudini (il Terzo Tempo, l’idea che tutto nasca e finisca nel rettangolo di gioco, il rispetto della decisione arbitrale).

Proprio per questo, tutti hanno condannato il placcaggio nei confronti dell’arbitro e nessuno s’è sognato di giustificarlo. Ci si augura, per il futuro, che finiscano i paragoni tra una disciplina e l’altra, un movimento e l’altro: nessuno sport è migliore degli altri e gli unici confronti utili sono quelli che guardano altrove in cerca di spunti per migliorare.

Ispiriamoci a vicenda.

Published by
Matteo Portoghese