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È dura. Stavolta è dura davvero. Trovare nuove parole, a mente fredda, per descrivere ciò che è accaduto la scorsa notte è veramente dura. Sì, siamo lontani migliaia di chilometri, e per accontentare il gusto polemico di ognuno, affermo anche di essere a conoscenza che ci sono tante tragedie e tanti morti in giro per il mondo di cui non se ne parla e per cui nessuno si indigna, però fidatevi: è dura. La Chapecoense, squadra lontanissima dal quotidiano di ogni essere con una vita normale qui in Italia, l’ho vissuta in prima persona, quest’anno, spesso. E pian piano, ho imparato ad apprezzarla.

Dura, durissima. Rendersi conto di aver aperto la stagione brasiliana alla prima giornata, commentando in tv la Chape in casa dell’Internacional: era la prima del Brasileirão 2016, era l’ultima di Alisson con la maglia del Colorado prima di approdare alla Roma, era solo la prima delle diverse occasioni che avrei avuto nel corso di questi mesi, da maggio a oggi, di parlare di una squadra di cui, ammetto, sapevo poco all’epoca, ma che man mano ho imparato a conoscere. E come dicevo sopra, ad apprezzare per la semplicità di stile, per la voglia di dare battaglia e non regalare mai nulla a nessuno, per il suo essere piccola ma orgogliosa. La Chape era una squadra che lottava, e magari perdeva anche pesantemente, ma lottava, sempre. Fino alla fine.

Dura, durissima perfino fare un discorso compiuto, dopo i fiumi di parole versati in questo martedì maledetto in cui il mondo ha brutalmente scoperto la Chapecoense, i suoi sogni di gloria, il suo modo di giocare a calcio, la parata di Danilo al 94′ della semifinale di ritorno con il San Lorenzo che è valsa la finale di Copa Sudamericana. Se ne è parlato tanto. Perfino troppo. Se ne è parlato dopo.

Già, la parata di Danilo: se solo quel pallone fosse finito dieci centimetri più in là. Se solo quel pallone avesse varcato la linea di porta, all’ultimo secondo dell’ultimo minuto di recupero di una partita giocata e vissuta come fosse una battaglia, per difendere un 1-1 conquistato col sangue in Argentina, oggi avremmo una Chape delusa, disillusa, ma viva.

Destino crudele.

Dici Chapecoense, oggi, e associ il tutto alla tragedia di Medellín. Dicevi Chapecoense, ieri, e inarcavi le sopracciglia chiedendo che diamine di scioglilingua fosse. Se c’è una cosa positiva, in tutta questa vicenda, se può anche solo essere considerata l’esistenza di un qualcosa anche lontanamente decente nella disgrazia della Chape, è solo il fatto che ora, questa squadra, sarà per sempre presente nella memoria. Del calcio, degli sportivi, degli appassionati, dei colti e degli ignoranti.

Voleva scrivere la storia vincendo per la prima volta un trofeo, la Chape. È finita male. Per tutti. Anche per me che dico Chapecoense e mi viene in mente l’ultimo gol commentato, quello di Ananias, che era appena entrato in campo e fu subito incisivo ma non decisivo: quella partita, contro lo Sport a Recife, il verdão do oeste la perse 5-1.

Stanotte ci sarebbe stato l’ultimo atto: in campo in Colombia per completare una scalata pazzesca. Nel 2009 in Serie D, nel 2012 in Serie C, nel 2013 in Serie B, nel 2014 in Serie A. Nel 2016 poteva esserci la Copa Sudamericana, e nel 2017 la partecipazione alla Libertadores.

Invece no. Invece, la corsa della Chape si è interrotta all’ultima curva prima di un rettilineo diretto verso una più che possibile felicità. La Chape non c’è più; crollata, non per colpa sua, e ora il calcio piange una squadra simpatica e ambiziosa, una squadra che aveva fame, che desiderava forse più di ogni altra cosa di poter dimostrare di poterla vincere, quella coppa. Destino cruel.

#TamoJuntoChape!