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Serie A, e la sostenibile leggerezza delle panchine

cristiano barni / Shutterstock.com

A osservare l’attuale classifica di Serie A verrebbe quasi da ridere. Non a tutti, certamente, ché il peculiare doping rappresentato dal tifo costituisce pur sempre elemento cardine dell’umoralità pallonara, al punto da non limitarsi, quest’ultima, alla mera registrazione del risultato acquisito, estendendosi, invece, alla considerazione della tendenza, nonché del confronto tra aspettative ed effettiva traduzione pratica di queste.

Ridono, e non poco, i tifosi del Milan, tanto sfiduciati in estate, sospesi tra un closing di cui tuttora non si ha un quadro esaustivo e la prospettiva di un’altra annata da purgatorio: si sono, invece, trovati una squadra finalmente quadrata, capace di gioco, non ancora “perfetta”, ma comunque in grado di giocarsela bene pure oltre le previsioni.
Ridono a Roma, almeno un poco, ché la vetta non è ancora uscita dal mirino, e su entrambi i lati del Tevere vi son ottime ragioni per sperare che la festa sia appena all’inizio: Spalletti e Simone Inzaghi hanno due belle gatte da pelare, ma pure la qualità per far fronte alle rispettive sfide. Il toscano ha tempra, lo si è visto, per gestire un ambiente caldo come quello della Lupa, in cui gli equilibri umani sembrano la variabile determinante per la resa d’una squadra dotata, sì, di ulteriori margini di miglioramento, ma pure di altrettanta “follia”, come dimostrato dall’andamento ondivago dei risultati. Il collega biancoceleste sembra aver trovato, in giacca e panchina, la dimensione ideale per scrollarsi di dosso l’ombra del più blasonato fratello, dopo una carriera di campo da predestinato che non ha, rispetto al familiare, trovata l’auspicata compiutezza. Partito in sordina, Simone ha costruito una Lazio che non perde più, forte d’una costanza di rendimento più unica che rara.

Discorso a parte per l’Atalanta e, soprattutto, il suo tecnico Gasperini. Il piemontese sembra essere riuscito, con calma, lavoro e abnegazione, a ricomporre i pezzi d’una carriera annunciatasi brillante sin dagli esordi genoani (con la panchina della Juve quale destinazione naturale) e quasi compromessa, “bruciata” dalla breve esperienza interista (ma che la panca nerazzurra sia sempre stata e continui a essere un braciere non è certo una novità: chiedere a De Boer, per credere).

Non ridono troppo, invece, a Torino, sponda Juve, nonostante il primato e una situazione in Champions tutt’altro che negativa: abituato a vincere e convincere, l’ambiente bianconero sembra ancora dover smaltire del tutto la diffidenza nei confronti di un Allegri che, forse, neppure con triplete riuscerebbe a convincere coloro che hanno deciso di battezzarlo come un miracolato. Stranezze del calcio, e d’un mestiere, quello dell’allenatore, che rappresenta sempre l’anello più fragile d’una catena complessa. Prendete Sarri, “maestro” sino a qualche settimana addietro, e adesso sempre più messo in crisi dalla stessa committenza che gli firma l’assegno mensile, o Di Francesco, il cui Sassuolo sta pagando carissima l’indigestione di complimenti incassati a inizio annata.

Il novero degli esempi potrebbe continuare all’infinito, con un corollario obbligato, che, agli occhi di chi scrive, resta uno dei più solidi (e sparuti) motivi per seguire uno sport la cui dimensione “moderna” è ben poco affascinante: il calcio non è, né sarà mai, una scienza esatta. I soldi possono contribuire a rendere più probabile la possibilità di successo, ma quel che avviene in campo è sempre il frutto d’un impasto misterioso tra abilità, forza mentale e alea, qualcosa di tremendamente terreno e al contempo impalpabile, sfuggente al controllo esterno. Col senno di poi si può giustificare qualsiasi risultato, perché è sport ed è bello parlarne sino all’esaurimento, ma, alla fine, quello che accade in campo è sempre qualcosa di imprevedibile, e la possibilità d’incidervi ci pare legata, prevalentemente, a un fattore: la tranquillità.

Lavorare in un ambiente in grado di “suggerire” serenità, riuscire a “costruire” una percezione di calma anche in ambiti particolarmente vivaci è, spesso, il presupposto ideale per sperare di cogliere i risultati prefissati, e questo vale, soprattutto, quando le cose non vanno bene, quando la ruota non gira a proprio favore. È in quel momento che la capacità di far quadrato, di non perdere la bussola, di mettersi al lavoro per poi ripartire, contano più d’ogni altra cosa. Ed è per questo, ci perdonino gli juventini scettici, che il loro ci pare davvero un grande allenatore, calato, soprattutto, in un gran bell’ambiente, a prescindere dai soldi e dell’alone (innegabile) che permea, nel bene e nel male, la Vecchia Signora.

La Serie A è ad appena un terzo del cammino: gli equilibri attuali sono destinati a sicure rivoluzioni (a nostro parere: il Napoli rimetterà la testa fuori, Milan e Atalanta rallenteranno, non ci spiace il Torino, invece), ma siamo convinti che, alla fine, sorriderà chi sarà stato in grado di mantenere la calma e non perdere la testa nei momenti difficili.