L’importanza di chiamarsi… Rossi
È dura, e non siamo ironici, la vita degli sportivi, pure quella dei super-pagati, quelli che assurgono al rango di simbolo (nella maggior parte dei casi in positivo, anche se non sempre), quelli, tanto per capirci, la cui fama finisce per eccedere l’ambito di stretta appartenenza. La mole di informazioni che, al giorno d’oggi, ci troviamo a gestire è, infatti, tale che un certo tipo di “specializzazione” è endemica, anche nello sport: un tempo, lo sportivo medio italiano avrebbe saputo elencare senza problemi i venti migliori giocatori di A, la composizione della Serie B e della C (almeno la vecchia C1), il quintetto base dell’Italia di basket, i primi dieci del raking ATP, più d’un pugno di ciclisti in formissima e altre nozioni basilari, tra cui la classifica del mondiale piloti di Formula 1 e quella delle moto. Adesso, sappiamo “tutto” (o quasi) di Liga, Premier e Champions League, ma tutto sembra più sfumato, più informe.
Si diceva: dura la vita degli sportivi. Sì, perché, al di là dei lustrini e dei soldi (non tutti, però, navigano e navigheranno nell’oro a vita, anzi), richiede una serie di sacrifici per niente banali (seguire il calcio giovanile ad alto livello può insegnare non poco al riguardo) oltre a una costante, quasi disumana esposizione all’occhio del pubblico che potrebbe fiaccare chiunque non abbia una forte vocazione (o allenamento) al gestire la tensione.
Non siamo, lo premettiamo, tra i fans aprioristici di Valentino Rossi: un certo tipo di nostra stima, per quanto la realtà sia sempre assai più complessa delle ricostruzioni giornalistiche (quelle di oggi, poi…), se l’è giocata ai tempi del caso di evasione fiscale, ma non è certo importante (e lui, di sicuro, non è che non dorma la notte a causa della nostra opinione). Tutto questo è, forse, dovuto anche a una personalissima vocazione ad amare chi perde e, per meriti e sorte, Vale ha vinto, a lungo e tanto. Detto ciò, il recente caso della “spinta” rifilata a una signora ispanica (al secolo Ana Cabanillas Vázquez, di El Puerto de Santa María) mentre, col motorino, concluso l’ultima gara stagionale, stava percorrendo la strada che all’interno del paddock valenciano porta dai camion verso i box dei piloti, ci pare emblematico di quanto, un certo tipo di attenzione perversa rappresenti qualcosa di problematico nel campo dell’informazione.
La sequenza è brevissima: si vede un ciclomotore, guidato da un riconoscibile Rossi, il circostante assembramento di persone, una signora bionda che sembra curarsi poco di quanto stia avvenendo intorno e che, a un certo punto, viene “spinta” via, senza troppa violenza, per lasciar passare il motorino. L’audio è confuso, sembra di sentire un’imprecazione, ma val poco. Da questo minimo fatto, eventi simili sono all’ordine del giorno in ambiti come feste o mercati cittadini, minimo per entità e conseguenze (non ci sono feriti, nessuno si è fatto male), ecco scatenarsi una noiosissima polemica sulla presunta educazione di Rossi, che, di fatto, divide esattamente l’opinione pubblica in due schieramenti, corrispondenti a simpatizzanti e antipatizzanti del centauro di Tavullia.
Il caso, in sé, ci ricorda, piuttosto, alcune occorrenze d’ambito perlopiù ciclistico (il recente sganassone di Chris Froome all’ultimo Tour de France, per non dire del pugno che Wladimir Belli rifilò a un tifoso esagitato nel Giro d’Italia del 2001), con alcune differenze sostanziali che ci paiono ampie attenuanti per Rossi.
Intanto, il ciclismo è uno sport le cui competizioni si tengono in strade con accesso (per fortuna) libero e gratuito: si tratta d’una grande “forza” della pedivella, un patrimonio che concede largo spazio anche all’originalità dei tifosi (ricordate il “Diavolo” posto a circa 10km dagli arrivi delle grandi corse a tappe?), ma che richiede al contempo un’endemica assunzione di responsabilità da parte dei medesimi. Si tifa per tutti, si applaudono tutti e, soprattutto, non si danneggia nessuno (non sempre è andata così, ma non è questo il punto).
L’area paddock di un gran premio è, invece, un’area comunque “riservata” all’interno di un circuito motoristico e il suo accesso dovrebbe essere garantito a persone che sappiano rispettare gli atleti appena reduci da una gara, con la conseguente condizione di stress, fisico e mentale, derivante da una prestazione agonistica appena fornita. È dunque possibile, ammissibile un’affermazione come quella resa dalla signora Cabanillas Vázquez, ossia “Stavo facendomi dei selfie con alcune amiche, e in quel momento stavo cercando il miglior angolo“? E, considerato che niente è seriamente successo (sempre la signora: “Ho un livido, e anche se è piccolo, lo denuncio“), è possibile che il semplice miraggio d’un “caso giornalistico”, con relative interviste, ospitate, oltre a una denuncia con nulle possibilità di successo, debba accendere così la cupidigia di una persona che, per quanto “vittima” di un piccolo incidente, è altrettanto placido che non abbia tenuta una condotta consona al contesto in cui si trovava? Nel senso: tra il “diritto” di un atleta a raggiungere lo spogliatoio e quello di scattarsi un selfie con le amiche, ossia tra una persona che, tecnicamente, sta lavorando e una che si sta facendo gli affaracci suoi, ci sarà pure uno straccio di differenza.
Niente da fare: il grande tritacarne dell’informazione non bada a determinate sottigliezze. Non conta la realtà dei fatti, ma la loro potenziale capacità d’evocazione: e questo vale in ogni campo, dallo sport alla politica, in barba alla verifica delle fonti, alla commisurazione di cause ed effetti, con la tecnologia (social media in primo luogo) a fornire un’amplificazione un tempo impensabile. Ai Rossi (un contrappasso irresistibile la coincidenza tra l’eccezionalità del campione e uno dei cognomi più diffusi dell’onomastica italiana!) della situazione, la nostra solidarietà, per quanto… Vale.