Il mondo sportivo italiano si appresta a vivere uno dei weekend più belli e spettacolari dell’anno. Arrivano in Italia, dopo la tappa nordamericana della loro tournée, gli All Blacks ed è un appuntamento imperdibile sotto molti punti di vista: sportivo, mediatico ma non solo.
La squadra allenata da Steve Hansen è l’archetipo della nazionale perfetta. Totale e realistica espressione del movimento sportivo locale, è la nazionale per eccellenza. Senza nulla togliere alle bellezze naturali mozzafiato, porta la Nuova Zelanda e il suo brand in giro per il mondo come null’altro: se ti dicono Nuova Zelanda pensi subito al rugby, se ti dicono rugby pensi subito agli All Blacks.
Prendiamo la Haka, per esempio; molte polemiche ci sono state e ci sono circa il suo uso. C’è chi reputa inopportuno accoppiare un canto di guerra a un evento sportivo, ma anche chi – da posizioni vetero-qualcosa, verrebbe da dire – polemizza sull’ipocrisia del trattamento postcoloniale di un elemento culturale così intimo e privato dell’etnia maori. Ma anche qui, in un modo o nell’altro, si deve andare oltre: la Haka degli All Blacks è storia, leggenda, società ed etnia.
Continuità tra l’elemento (post)coloniale e quello locale, la Nuova Zelanda che entra nell’oggi senza dimenticare ciò che c’era ieri; dal rugby union, l’usanza di praticare la Haka s’è trasferita ad altri sport (ricordate gli occhi di James Harden di fronte alla danza dei Tall Blacks?) e solo a pensar male si vede in ciò un uso esagerato dell’elemento tribale. Vi è in realtà tutta la bellezza della commistione tra sport e cultura, rugby e società.
Sul piano tecnico, la sfida che attende l’Italia sabato è francamente difficile. Impari, verrebbe da dire; vuoi perché i n. 1 al mondo vengono da due titoli iridati consecutivi, vuoi perché abbiamo fresche le ferite di una gestione Brunel nata benino, continuata male e finita peggio che mai. La fase storica del nostro movimento, tra franchigie ultime in classifica e una crescita argentina che ci priverà dei prossimi Castrogiovanni e Parisse, non autorizza ottimismo in vista di sabato, né abbiamo la maturità e la concretezza tecnica dell’Irlanda, capace a Chicago di battere i “tutti neri” per la prima volta in 111 anni.
Abbiamo però il fattore Olimpico – che ormai vive con gli azzurri un pienone cui raramente si assiste per le partite interne di Roma e Lazio – e quel po’ di malizia che pare aver accompagnato l’avvento di Conor O’Shea.
L’irlandese, che a livello di club ha allenato in Premiership inglese i London Irish e gli Harlequins, porta con sé un bagaglio d’esperienza anglosassone – passatemi il termine – e rugbisticamente diverso rispetto a quello del predecessore.
Se anche il rugby, come il calcio e altri sport, è diventato globale e ha azzerato le differenze tra una tradizione e l’altro, questo mix celtico-inglese può fare al caso dell’Italia.
Conterà soprattutto la cura del dettaglio, il lavoro per correggere quei difetti ormai cronici della Nazionale: per Mike Catt – assistente allenatore dell’Italia e responsabile dei trequarti – “per vincere i test dobbiamo portare la nostra media realizzativa sui calci piazzati intorno all’80/90%. Diversamente, non è possibile vincere un test match“, ma è anche “un percorso che richiede tempo, non accade dall’oggi al domani”.
Questi siamo: sgangherati, imprecisi al piede, privi di quell’apertura world class che le altre del 6 Nazioni possono vantare. Ma ripartiamo dalle nostre certezze, da un nuovo staff, da una rinnovata sinergia tra Italia e franchigie del Pro 12.
Verranno sabato a Roma gli All Blacks e l’obiettivo è vincere.
Non perdere con onore.
Né partecipare al solo terzo tempo.
Vincere come gli irlandesi, vincere a casa nostra.
In quel caso l’Olimpico, non me ne vogliano Roma e Lazio, diventerebbe per sempre la casa del rugby.