Editoriali

Quanto vale un’esultanza: il gol e la gioia manifesta (o meno)

A nostra memoria, si tratta di roba relativamente recente. Parliamo dell’abitudine, da parte di calciatori che segnano una rete contro uno dei club di precedente appartenenza, di non esultare al momento della marcatura, manifestando mediante tale contegno una sorta di “solidarietà” verso la società, i compagni e i tifosi un tempo amici.

Il primo che ci sovviene, in effetti, è l’argentino Abel Balbo, puntero massiccio, piede gentile, giunto in Italia grazie a paròn Pozzo, tra i primi grandi colpi dell’ormai trentennale (e ancora in auge) dirigenza udinese. Era il1989 e, assieme all’ex River Plate, arrivarono in Friuli un imberbe Néstor Sensini nonché il celebrato Ricardo Gallego, dal Real Madrid ancorché a fine carriera. Altri mercati, altri tempi. A Udine, Balbo rimase per quattro stagioni felici, nonostante due trascorse nell’inferno della cadetteria (i nazionali argentini nella nostra Serie B: altri tempi, appunto): le fonti dicono 134 presenze per 65 hurrà, media tutt’altro che disprezzabile, e un rapporto strettissimo con i tifosi. Passato alla Roma, quando si trovò nella situazione di dover segnare contro i friulani, il buon Abel non venne certo meno al proprio dovere, ma, insaccata la palla, evitò di esultare, spiegando poi ai giornalisti che il mancato festeggiamento era dovuto al “rispetto” dei vecchi tifosi. Che apprezzarono molto tale accortezza.

Da lì in poi, sono stati molti i casi di giocatori autocensuratisi al momento del gol, istituendo una sorta di consuetudine non sempre ben interpretata dalle tifoserie che, talvolta, arrivando addirittura a “pretendere” consimile riguardo dai propri ex beniamini. Sull’argomento, peraltro, i pareri degli stessi calciatori sono disparati: chi si adegua, magari senza troppa convinzione, chi “ci crede” sul serio e si riserva il diritto di non esultare, chi ritiene che tra i “doveri” di un calciatore vi sia anche quello di festeggiare, n’importe quoi chi sia l’avversaria. Tra questi, citiamo José Altafini, ora noto commentatore, ma pure ex cannoniere che a Napoli ricordano col nomignolo Core ‘ngrato; non tutti rammentano, però, che si tratta pure di un campione del mondo (Svezia 1958)  giocatore più giovane della Seleção, dopo un certo Pelé. In varie conversazioni, il buon José ci ha sempre detto (pure a proposito di quel gol fatidico che segnò la sconfitta del Napoli con la Juve e ne decretò l’infame soprannome a imperitura memoria) che non avrebbe mai e poi mai rinunciato a festeggiare una rete, il momento di per sé più bello del gioco del calcio, e che gioire è (anche) un “dovere”.

Inutile dire che la questione è ritornata di stretta attualità per la partita Juve-Napoli di sabato sera e, soprattutto, per quanto avrebbe riguardato l’eventuale marcatura da parte di Gonzalo Higuaín, Core ‘ngrato del nuovo millennio. Il gol c’è stato, e pure decisivo, l’esultanza no, per il rilancio delle polemiche tra chi ritiene ugualmente l’argentino un “traditore” della causa partenopea, chi lo difende, chi, da juventino, lo critica per il teorico scarso attaccamento al nuovo club. Posto che abbiamo parlato sia della prestazione sportiva del Pipita (qui) sia del portato emotivo di tale circostanza (qui), ci pare giusto, quasi doveroso, tornare sulla questione per proporre un personalissimo punto di vista.

Alla sottoscrizione d’un contratto di lavoro, un calciatore s’impegna a fornire i propri servigi alla società che lo ingaggia. Tra questi sono ovviamente inclusi tutti quei gesti che debbono (cercare di) garantire il successo della propria squadra sul campo. L’esultanza, tecnicamente, non può rientrare in questa categoria: si tratta d’una reazione istintuale, di qualcosa che o c’è o non c’è, e non si possono attribuire colpe in tal senso, né a chi celebra il gol (ricordiamo, anno 1999, il Bierhhoff milanista e l’ultrafesteggiata tripletta sul campo dell’Udinese che lo aveva letteralmente rilanciato ripescandolo in Serie C) né a chi non se la sente di gioire.

Tutt’altro discorso sarebbe se un giocatore si rifiutasse di segnare o, comunque, venisse meno al proprio dovere sportivo: inutile dire che il pensiero corre all’aprile 1991, quando il Divin Baggio, tornato sul campo della Fiorentina che l’aveva allevato come un figlio, rifiutò di calciare un rigore; dal dischetto andò Gigi De Agostini (che peraltro sbagliò). Apriti cielo, e giustamente, al di là del plausibile gongolare da parte della tifoseria viola, quella che qualche mese prima era scesa in piazza contro la dirigenza Pontello rea d’aver svenduto il fuoriclasse all’avversaria più odiata.

Esultare, quindi, è un diritto, non un dovere. E questo dovrebbe essere, a nostro avviso, chiaro a tutti: calciatori, giornalisti, tifosi. Per chiudere, però, vogliamo citare il caso limite sul tema, quello che non siamo mai stati davvero incapaci a decriptare. Curiosamente, coinvolge due club citati a più riprese nel nostro discorso: aprile 2011, l’Udinese, lanciatissima per un posto Champions, si reca al San Paolo peraltro priva del proprio miglior giocatore, quell’Antonio Di Natale capocannoniere, partenopeo di nascita e tifo. Nonostante la formazione rimaneggiata, la squadra di Guidolin vince due a uno: prima segna Germán Denis, che “chiede scusa” ai tifosi di casa in quanto ex giocatore azzurro; successivamente, a gonfiare le rete dei locali con un golazo da più di trenta metri è Gökhan Inler, svizzero d’origine turca, sino a quel momento beniamino dei tifosi bianconeri perché persino in grado di parlare friulano. Nonostante il gol bellissimo, decisivo e importante per la classifica, il centrocampista non accenna nessun moto gioioso. Strano: l’Udinese è la sua prima squadra italiana, lui ancora giovane. Nel luglio successivo, il mistero (per così dire) si svela: Inler, con tanto di maschera leonina, viene presentato da Aurelio De Laurentiis a giornalisti e tifosi, caso più unico che raro (e speriamo che tale rimanga) di autocensura… preventiva. Al cuore non si comanda, ma, evidentemente, la vita non è fatta di soli sentimenti.

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Igor Vazzaz