Ode a Peter Sagan, dalla cronaca alla storia
Lo aspettavamo da anni, e quasi avevamo iniziato, diciamo intorno al 2013, a sospettare di lui, prospettandoci, nella personalissima galleria di ciclisti in grado di farci innamorare, l’ipotesi di schiudergli i battenti della nutritissima sezione Eterne promesse. A malincuore, se dobbiamo essere onesti: perché un talento cristallino come quello di Peter Sagan era molto tempo che non si vedeva in giro.
Invece, per una volta tanto, la sregolatezza s’inchina o, anzi, si mette al servizio del genio, nel comporre quella che al momento parrebbe una favola destinata a protrarsi ancora molto a lungo. Quella consumatasi l’altro ieri sotto il cielo di Doha, infatti, non è soltanto la vittoria d’un ciclista forte, anzi fortissimo, ottimamente dotato da Madre Natura e progressivamente cresciuto sotto il profilo della tenuta mentale: domenica scorsa abbiamo assistito all’autentica consacrazione d’un campione avviato a essere indiscutibile, un atleta che, dalla categoria dei predestinati, s’è guadagnato piena e meritata cittadinanza in quella dei fuoriclasse, coloro che la storia d’uno sport elegge a scrivere e riscrivere le proprie pagine.
Quasi un decennio è trascorso dall’ultimo bis iridato consecutivo, con le dolcissime immagini del nostro Paolo Bettini a magnificare sugli asfalti di Salisburgo e Stoccarda la gloria della Squadra (nome che accompagna da anni la nazionale azzurra): adesso, il corridore slovacco si trova in una posizione davvero invidiabile rispetto alla propria carriera e alla disciplina praticata. Ventisei anni compiuti, con un sensibile vantaggio anagrafico rispetto ai precedenti autori di doppiette: dallo stesso Bettini (33 primavere nel 2007) a Gianni Bugno (1990-1991, 27 anni), da Rik Van Looy (1960-1961, 27 anni) a Rik Van Steenbergen (1956-1957, 32 anni, ma il belga aveva colto un primo alloro mondiale nel ’49, ad appena 25 primavere) sino al leggendario Georges Ronsse, anch’egli belga, ventitreene all’epoca del bis conseguito nel 1929, rappresentante però d’un ciclismo pionieristico davvero troppo remoto per essere raffrontato all’attuale. E in questa peculiare lista di bicampioni replicanti, il ragazzaccio di Žilina è il primo a interrompere il dominio italo-belga, da slovacco per giunta, e dunque privo sia d’una scuola sia d’una vera e propria compagine alle spalle (per quanto la corsa compiuta due giorni fa da Michael Kolář sia stata pazzesca per intensità, abnegazione ed efficacia), al contrario dei molti avversari, inglesi, tedeschi, spagnoli e belgi su tutti, castigati sia a Richmond, l’anno passato, sia a Doha.
Siamo quindi a salutare un campione spesso criticato per le guasconate, le parole dette fuori dai denti, i comportamenti sopra le righe che, in un ambiente sin troppo serioso, non gli hanno risparmiato detrattori, gufi e antipatizzanti subito pronti a ghignare, neppure troppo di nascosto, davanti agli endemici e parziali fallimenti che uno sport complicato come il ciclismo, segnatamente quello attuale, impone anche ai suoi imberbi predestinati. E dopo l’incetta di maglie verdi al Tour, cinque consecutive con il record di Erik Zabel (sei maillot verts tra 1996 e 2001) nel mirino, ecco il bis iridato che s’aggiunge, nella stagione 2016, all’Europeo di Plumelec, alle tre vittorie di tappa al Giro di Francia, alla Gand-Wevelgem e al Giro delle Fiandre, primo successo in una classica monumento colto peraltro nella sua centesima edizione, col sigillo finale della leadership nell’UCI World Tour.
Un trionfo, su tutta la linea, o quasi. Un trionfo che, come per tutti i campioni che aspirino a iscrivere il proprio nome nel libro della storia, deve avere séguito, magari anche rilanciando, senza accontentarsi dell’acquisito. Un corridore come Sagan, con il suo spunto da rettile, la sua potenza mista a un’agilità rara, specialmente in considerazione di una struttura fisica comunque importante (coi suoi circa 75 kg per 182 cm, benché i dati in merito non siano univoci, non è un leggerino come certi suoi avversari, Froome incluso), e, ormai lo possiamo dire, la sua rinnovata affidabilità può aspirare davvero a successi clamorosi, come l’idea di eguagliare o superare il record di mondiali in linea (la soglia è tre centri, primato detenuto da un terzetto: il nostro Alfredo Binda, 1927, 1930, 1932, il già citato Van Steenbergen e l’iberico Óscar Freire, 1999, 2001 e 2004) o, idea che ci affascina ancor di più, la vittoria in tutte le classiche monumento, corse che hanno già visto più volte Tourminator nella parte del protagonista.
Con il 48° posto nella virtuale, virtualissima classifica all time diramata dall’UCI che tiene conto dei risultati in grandi classiche, grandi giri e competizioni mondiali, Sagan può dire di essersi già ritagliato un posto nell’Olimpo, ma, si sa, non si diventa campioni per caso, anzi: l’appetito vien mangiando. In un mondo sportivo che sembra più interessato alle chiacchiere da cortile d’un calciatore ventitreenne che scrive (si fa per dire) un’autobiografia, preferiamo provare a rimettere, nel nostro più che piccolo, le cose in prospettiva e lanciare uno sguardo là, dove si fa la storia d’uno degli sport più belli, faticosi e affascinanti al mondo.