Non sono le colonne del nostro sito il luogo giusto per parlare di politica, ma certo da un punto di vista sportivo la rinuncia alla candidatura di Roma 2024 è una sconfitta.
A ogni considerazione di natura economica e amministrativa, se ne potrebbero accompagnare altre di natura sportiva, culturale e sociale. Non è questa la sede per insistere, ma sono da valutare anche i danni collaterali di tale passo indietro.
Un evento olimpico non è mai fine a sé stesso, ma si porta appresso tutta una serie di programmazioni, organizzazioni e manifestazioni che ora rischiano di morire. Basti pensare al ciclo di eventi internazionali ospitati dalla Gran Bretagna negli anni immediatamente prima e dopo il 2012: Commonwealth Games, Coppa del Mondo di rugby, Coppa del Mondo di cricket, di rugby league e chi più ne ha più ne metta.
Tutto attorno (e come contorno) ai Giochi, tutto grazie all’energia e alle risorse messe in circolo dalle Olimpiadi: l’idea di una città e una nazione per un decennio (almeno) centro del globo. Pronta a investire e rilanciare anche nello sport di base: per fare bella figura nel medagliere ma non solo. Si pensi alla crescita del calcio femminile, sempre oltremanica, una volta ottenuta l’organizzazione dei Giochi 2012: ormai primo sport tra le donne britanniche, capace di far concorrenza anche a discipline tradizionalmente femminili come il Netball.
Eccoci: chi scrive ama visceralmente il rugby.
Lo considera un segno della storia, forse il lascito positivo (l’unico?) di un certo colonialismo. Dove son passati gli inglesi hanno portato il football, in tutti i suoi codici e le manifestazioni. In certe parti del mondo chiamano football semplicemente lo sport di origine britannica più popolare nella zona: cercate football nel Queensland e nel Nuovo Galles del Sud e troverete qualcosa di diverso dalla palla rotonda egemone nel nostro paese.
Il rugby, appunto.
Quello che in Italia ha spesso attratto grandi maestri, spinti da un rugby di club non lontano dal professionismo, o comunque attratto dalla possibilità di costruire. La tradizione azzurra pre-Sei Nazioni, per esempio, è più ricca di quanto si pensi di solito: se ne parla sempre troppo poco, dovremmo noi cronisti per primi parlarne di più.
Si commenta da sola la crescita – se non altro nella popolarità, nella percezione, nel voler bene a un’Italia diversa da quella 4 volte campione iridata – successiva all’ingresso nel torneo più antico: Flaminio e poi Olimpico, sistemazione apparentemente provvisoria, divenuta definitiva grazie a pienoni e incassi che ora Lazio e Roma molto raramente riescono a far registrare.
Ci siamo: manca la crescita nei risultati – movimento meno radicato rispetto a quello delle grandi nazioni europee, errori di programmazione e troppi personalismo – ma il rugby ha trovato una sua collocazione tra gli sport italiani, ben oltre le sue roccheforti o le isole felici delle clubhouse e dei terzi tempi.
Non senza certa retorica a volte esagerata e irritante (invero, spesso da parte di chi segue una partita l’anno…), ma con la consapevolezza che basta esserci e che esserci è bellissimo: Roma nei giorni del 6 Nazioni si colora d’azzurro, di scozzese, inglese, gallese, irlandese e francese. Zona Colosseo la mattina della partita è olimpica, come colori, frequentazioni e gemellaggio nei modi ed è qui che la rinuncia a Roma 2024 fa più male.
Non solo e non tanto perché l’Urbe non conoscerà il Rugby Seven, ma perché – la notizia è fresca fresca – la FIR ha rinunciato alla corsa a ospitare la Rugby World Cup 2023. Le chance erano buone, pur in ritardo – nel parere di chi scrive – rispetto alla candidatura irlandese, se non altro perché in terra d’Irlanda non avresti condiviso gli stadi col calcio e la Champions League, e ora non si proseguirà nella corsa. Lo ha comunicato l’Ufficio Relazioni Media federale, così lo ha commentato il n. 1 della FIR Alfredo Giavazzi: “Da sempre strettamente collegata a quella delle Olimpiadi di Roma 2024, la candidatura alla decima edizione della RWC non ha pià le condizioni per proseguire, così come convenuto con Governo e Coni“.
Se l’appena rieletto presidente rimane “convinto delle grandi potenzialità della candidatura italiana, che avrebbero portato indubbi benefici e necessarie migliorie negli stadi italiani”, il movimento sportivo tutto perde “una fantastica opportunità per radicare ancor più i nostri valori ed il nostro sport nel tessuto sociale italiano“.
Ospitare uno dei più grandi eventi internazionali sarebbe stato decisivo e fondamentale proprio in questo momento storico.
Proprio ora che il rugby nordamericano cresce, è diventato professionale e bussa alle porte di Pro 12 e (forse) Sei Nazioni.
Sarebbe stato funzionale e pragmatico soprattutto adesso che Georgia e Romania sono pronte a entrare nel tier 1; ora che il Giappone, dopo l’impresa sul Sudafrica e altre soddisfazioni internazionali, è entrato con l’Argentina nel Super Rugby.
In questo momento storico di crescita per le coppe europee e per l’intero rugby tutto, Italia 2023 ci avrebbe fatto dire la nostra. Imparando maggiormente a convivere con i grandi stadi del calcio, ristrutturandoli anche.
Proprio per questo e altri motivi che diventeranno rimpianti è un’occasione persa.
Ma ora testa bassa e pedalare.