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La nuova Italia di Ventura, questioni di prospettiva

In un paese come l’Italia, contraddistinto a ogni livello pensabile dalla masochistica vocazione a improvvisare, ché tanto all’ultimo tuffo e comunque vada ci salviamo sempre perché siamo inventivi, creativi e geniali, navigatori, santi ed eroi, una carezza in capo a vostro figlio con il cielo sopra Berlino, diventa quantomai paradossale pretendere che il più serio dei settori frivoli (o il più frivolo dei settori seri) possa dare una qualche sparuta dimostrazione di lungimiranza, organizzazione, programmazione che siano davvero tali.

Parliamo di calcio, appunto, senza toccare tematiche assai più rischiose ancorché necessarie, e il quadro della situazione sarà in ogni caso confermato, al di là degli attori in campo, delle contingenze, dei dettagli. Prescindiamo dalla prima vittoria azzurra di Giampiero Ventura, ct per caso e assenza d’alternative (don Capello, dopo la batosta slava, mai si sarebbe imbarcato in imprese men che garantite, la carriera lo dimostra; Mancini, invece, ha forse rimpianto d’aver prolungato oltre il necessario l’agonia del secondo matrimonio nerazzurro), chiamato all’ingrato compito di rifondare un gruppo dopo l’exploit contiano: stringe il cuore assistere alle conferenze stampa del ligure che tenta di spiegare, con ragione, come la sua sia una nazionale diversa da quella del predecessore, che la squadra avrà bisogno di tempo per assimilare la sua idea di calcio manovrato, per poi vedersi replicare dai colleghi giornalisti una raffica di domande del tipo “…Ma la squadra come si pone rispetto ai risultati ottenuti da Conte?”. Nel paese dei vari milioni di commissari tecnici (in netto calo, a dire il vero, ché i prodotti sovraesposti alla lunga perdono appetibilità), per noi la questione non è e non sarà quella di Ventura selezionatore.

Apparteniamo alla schiatta dei folli convinti che il calcio sia un gioco di squadra ed equilibri fragili, uno sport in cui niente si inventa, ma, al contempo, in cui nulla possa costruirsi in vitro, ché la prova del campo è sempre composta da un’incalcolabile serie di eventi spesso alieni dalla prevedibilità. Se ne può, e se ne deve, parlare, senza dubbio, sia prima sia dopo, ma senza perdere la percezione della complessità e del ruolo del caso. Anche rispetto ai risultati colti da un allenatore: il pallone è, forse come pochissimi altri sport, il regno delle sliding doors, in cui una decisione discutibile, un refolo di vento che devia una traiettoria, un appena percettibile tocco del pallone possono autenticamente decretare il destino di un numero spropositato di persone, tra diretti interessati e appassionati di rimando. In tutto ciò, l’allenatore ci pare l’elemento più indifeso, il primo sacrificabile ove risulti necessario dare in pasto alla piazza un capro, al di là di quanto davvero possa incidere realmente sul rendimento di una squadra.

Israele-Italia, nel suo svolgimento sussultorio, presenta elementi buoni per i rammarichi mediorientali, più volte vicini a un pareggio al momento quasi meritorio, così come per il sospiro azzurro causa pericolo scampato, con tanto di applausi all’ex mister del Torino per l’inserimento di Ciro Immobile e non aver cambiato modulo pur avendo perduto sciaguratamente Chiellini (gli assertori della BBC migliore difesa al mondo, forse, sono una buona volta serviti). Andiamo avanti e aspettiamo la Spagna, tra un mese, a Torino; le Furie Rosse hanno seppellito il non irresistibile Liechtenstein e rappresentano l’avversaria più pericolosa d’una qualificazione nient’affatto comoda: ricevere gli iberici vantando tre punti in saccoccia era il minimo, perché un pareggio ad Haifa e un’ipotetica sconfitta contro gli uomini di Lopetegui avrebbe senz’altro fatto precipitare la gestione Ventura in una crisi certissima.

È andata bene per adesso, e meno male, ma la questione, a nostro avviso, è un’altra, sicuramente più difficile, a prescindere dal nome del tecnico della nazionale. Come si vuole, e si deve, organizzare il calcio italiano? Cosa vuole, e deve, essere, questo gioco? Una volta data la risposta a queste domande, la più cruciale: cosa fare del calcio italiano? L’impressione è che, come in qualsiasi altro settore (ed è anche per questo che il pallone ci pare interessante, come riproduzione in scala di dinamiche comuni ad altri comparti) il groppo di problemi venutisi a sommare sia talmente insolubile da sfociare in un obbligato, e pure patetico, immobilismo ciarliero, privo di visione e prospettiva, condito dalle sparate sugli Opti Pobà e dal tiramo a campare, ché tanto il coniglio dal cappello, prima o poi, lo estraiamo senz’altro.

Ventura, Donadoni, Guidolin, Prandelli, Conte, s’aggiunga chi volete: la scuola dei tecnici italiani, lungi dall’essere la migliore del mondo (com’è che quando si fanno queste dichiarazioni di qualità, i migliori siamo sempre noi?), è senz’altro composta da seri professionisti, gente che conosce il mestiere assai di più di giornalisti e tifosi convinti di poter far molto meglio di loro.
Senza, però, un disegno vero, complessivo, che sappia indicare la strada, che possa costituire l’asse portante di un lavoro d’equipe serio e convinto, persino l’ingaggio di Pep Guardiola o il ritorno in vita di Ernst Happel sarebbero soluzioni parzialissime, e votate allo scacco. Dinanzi all’attuale situazione del nostro calcio, andare indietro nei mesi e leggere, ai tempi delle recenti vittorie di Spagna e Germania, di come avremmo dovuto imparare dai modelli organizzativi di quei paesi per rifondare l’intero movimento fa davvero ridere, anzi piangere. Parole e parole sulla necessità di ripartire dalla cantera come gli spagnoli, sulla bravura dei teutonici a ricostruire Bundesliga e Die Mannschaft (per pura carità sorvoliamo sulle vicissitudini legali di Franz Beckenbauer, reduce nelle scorse ore anche d’un complicato intervento cardiaco), per poi dimenticar tutto davanti a una vittoria sofferta più del dovuto, o a un Europeo in cui, al di là degli artifici retorici, è stato colto un risultato possibile, non certo miracoloso o superiore a ragionevolissime aspettative.

Per assistere a una vera conversione in senso programmatico, a un ripensamento generale, a un rinnovamento profondo del nostro calcio, l’impressione è che si debba, nella migliore delle ipotesi, ripassare tra qualche tempo. Ci sia almeno consentito dire, senza voler per forza sforare in altri ambiti per quanto non sarebbe certo illecito, che il problema siamo noi, nient’altro che noi.