Editoriali

Uno sport che deve cambiare

È iniziato ieri il Guinnes Pro12 2016-2017. Per i lettori poco avvezzi al linguaggio del rugby, la vecchia “Celtic League”: demominazione superata perché, nonostante ipotesi celtiche più o meno accademiche, con l’arrivo dei nostri club avrebbe un po’ stonato.

In sostanza: franchigie espressioni massime dei movimenti di Galles, Irlanda, Scozia e Italia. Inghilterra e Francia no: per ragioni demografiche non ne hanno bisogno. Godendo ognuna di almeno due campionato professionistici di alto livello, capaci tra affluenze allo stadio e diritti tv di essere autonomi e anzi di accumulare numeri secondi soltanto al calcio, sport padrone del Vecchio Continente.

Alle italiane, in questo campionato, non è mai andata troppo bene. Molta instabilità organizzativa (vedi vicenda Aironi, l’addio non addio di Treviso, ecc.), alle spalle un movimento meno forte e strutturato rispetto alle roccheforti storiche dell’ovale europea. Eppure. siamo lì: Sei Nazioni con la Nazionale, Heineken/Champions Cup e Challenge Cup con i club. Non senza paradossi, o sfide troppo squilibrate da affrontare: la dimensione più giusta per Zebre e Treviso sarebbe la Challenge (volgarmente: l’Europa League del rugby) ma un’italiana in Champions ha diritto ad andarci per rappresentanza, mentre raramente i club espressioni del campionato d’Eccellenza sono stati all’altezza delle competizioni continentali.

C’è sempre la sensazione di uno scarto, di un ritardo: è come se l’Italia del rugby fosse un passo indietro. Una categoria sotto, ecco: Tommaso Allan, mediano d’apertura e grande speranza azzurra, ha giocato nella seconda serie francese e cerca un rilancio internazionale ora col Benetton Treviso. Ma ha sinora accumulato molto meno chilometraggio ad alto livello rispetto ai colleghi (e che colleghi…) irlandesi, inglesi e via dicendo. Anche il Galles, che pure nel Pro12 non brilla da anni, esporta i suoi migliori talenti nel Top14 e in Premiership, ma ci dà due piste nella formazione dei giocatori, voglia e capacità di attrarre il grande pubblico.

Forse alla fine è anche e soprattutto questo, il nostro problema: a parte il pienone dell’Olimpico per Sei Nazioni e test match contro le big (quest’anno arriva la Nuova Zelanda), Zebre e Treviso interessano solo agli appassionati del posto. Manca, soprattutto nel caso dei bianconeri, quel rapporto viscerale e storico tra squadra e comunità che ammiriamo nel caso delle franchigie gallesi e irlandesi; non si registrano mai affluenze paragonabili al calcio, o almeno al rugby d’alto livello. Da questo punto di vista è encomiabile – lo scrive chi ci interagisce quotidianamente ricevendo comunicati stampa – il lavoro a livello di social media: ma serve qualcos’altro, servirebbe qualche vittoria roboante per scaldare l’ambiente e chiamare il “popolo del rugby” a raccolta.

È un salto di qualità necessario, il nostro rugby deve cambiare ora e deve cambiare bene. Non servono piccole rivoluzioni fini sé stesse, estemporanee quanto improvvisate: sotto l’Equatore c’è chi ha rivoluzionato il campionato pro più vasto e grande del mondo (per estensione geografica: non sono nel rugby), allargando il Super Rugby a squadre argentine e giapponesi. L’Emisfero Sud ha portato il suo sport di club su quattro continenti, passando pure per Singapore e un’idea di rugby come evento.

Happening, dicono gli anglofoni: nell’Argentina semifinalista iridata c’è tutto il percorso di crescita e di avvicinamento al rugby australe costruito gara dopo gara nel Rugby Championship, nel Giappone capace di battere il Sudafrica all’ultimo mondiale inglese c’è la marcia di una federazione e di un governo che ha investito e investirà tantissimo.

Sino a ospitare la Coppa del Mondo 2018. E proprio qui possiamo trovare la nostra chiave di volta: dobbiamo andare ben oltre. Superare la dimensione né carne né pesce raggiunta sinora dal nostro rugby; magari trovando sinergie tattiche, tecniche e organizzative con altre specialità (il Seven olimpico, il rugby league), ma specialmente osando. Serve avere coraggio e non avere paura.

Se 15 anni fa l’idea di un Olimpico stabilmente riempito da 60 mila persone per tifare un’Italia che non fosse quella del calcio ci avrebbe fatto sorridere. Oggi, questo tipo di coinvolgimento è una realtà e la sensazione è che si possa crescere ancora: la candidatura italiana a ospitare il Mondiale 2023 è realtà. La concorrenza di Irlanda, Sudafrica e Francia è più autorevole a livello di palmarès e blasone, ma siamo il nuovo e come tale c’è da presentarsi.

Con coraggio: è quello hanno tirato fuori gli Stati Uniti con la loro prima lega professionistica. E con l’ipotesi di entrare nel Pro12 con le loro migliori squadre di club: il rugby che cambia. Facciamoci trovare pronti

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Matteo Portoghese