La cadenza quadriennale, unita alla natura di manifestazione (quasi) onnicomprensiva per specialità e discipline, fanno delle Olimpiadi un momento interessante per “tastare il polso” al movimento sportivo d’un paese, sfruttando l’occasione del confronto con altre nazioni di calibro più o meno identico. Il medagliere, pervicacemente letto in modo grossolano da commentatori e dirigenti, è certo un indice da non sottovalutare, benché, lo abbiamo già scritto due settimane or sono, la sua pura e semplice consultazione rischi di risultar del tutto fuorviante, se si pretende di tentare un’analisi che voglia fotografare la realtà. Il nono posto, in sé, significa poco o niente, giacché il computo dei podi dice poco o nulla circa il “peso” dei medesimi: equiparare chi si cimenta in discipline universali e accessibili in ogni parte del mondo (la maratona, la corsa veloce, ma anche la pallavolo) con sport pure di grande tradizione culturale ma limitato numero di praticanti (la scherma, anche il ciclismo, se vogliamo, e certe attività “tecniche” come il tiro o l’equitazione) può risultare utile in chiave autopromozionale, ma niente può rivelare circa lo stato di salute di un paese sotto il profilo sportivo.
Lo zero assoluto, in termini di medaglie, riportato dall’atletica italiana, risultato che ci riporta indietro al 1956 (Melbourne, XVI Olimpiade), è qualcosa di molto più cogente rispetto al, pur sottoscrivibile, compiacimento per i successi di Niccolò Campriani e degli altri due corregionali Diana Bacosi e Gabriele Rossetti, i cui quattro ori complessivi farebbero primeggiare nel medagliere di specialità la Toscana, se questa si fosse presentata come nazione a sé (cosa che, sia chiaro, chi scrive non si augura affatto). Vero che l’assenza di Gimbo Tamberi ha privato la spedizione azzurra nella regina delle specialità della freccia migliore al proprio arco (costringendo peraltro gli incolpevoli abbonati RAI a sciropparsi le banalità a profusione riversate da questi in veste d’improvvisata seconda voce, ruolo che vorremmo sconsigliargli in futuro, per carità di patria), vero che i piazzamenti di Alessia Trost nel salto in alto (quinta), Antonella Palmisano e Matteo Giupponi nella marcia 20km (rispettivamente quarta e ottavo, con Eleonora Giorgi squalificata), Libania Grenot nei 400 piani (ottava) e della staffetta 4×400 femminile (sesta) sono comunque risultati di tutto rispetto, ma quello zero, soprattutto rispetto al numero di nazioni andate a medaglia (ben 43) ci pare una condanna preoccupante e che il sigillo della maratona maschile (Ruggero Pertile 38°, Stefano La Rosa 57° e Daniele Meucci ritirato) rischia di rendere inappellabile.
Il discorso è ovviamente lungo, e articolato: a partire dalla scarsa cultura sportiva che caratterizza, da sempre, la scuola italiana a un immaginario collettivo che da anni tende a concentrarsi quasi esclusivamente su calcio e poco altro, per non parlare della grave crisi, finanziaria ma non solo, attraversata dalle società sportive diffuse sul territorio nazionale, con pochissime eccezioni. L’Italia è un paese che si muove sempre meno, e a poco valgono i quarantenni che “scoprono” la corsa tentando di convertirsi in runner (termine infelicissimo) fuori tempo massimo, o il penoso affollamento delle palestre nei periodi prevacanzieri in vista della ancor più penosa prova costume. Il discorso è assai meno ozioso di quanto si pensi: ignorare la stretta correlazione tra “stato di forma” dei cittadini e la spesa sanitaria nazionale ci pare un’imperdonabile forma di miopia; al di là dei discutibili spottoni antifumo di Nino Frassica, un popolo in grado di praticare stili di vita sani tenderà senz’altro ad ammalarsi meno, ad avere meno problemi di obesità, a rendere, infine, il ricorso alle strutture ospedaliere d’esclusiva pertinenza a chi ne abbia davvero bisogno. Considerazioni, queste, che ci suonano distanti dall’orizzonte ideale dei Malagò e degli assortiti addetti al conteggio dei metalli in bacheca, spesso etichettando implicitamente chi si piazza al quarto posto come sconfitto.
Ed è per questo che il medagliere, riferimento importante per un parziale bilancio della manifestazione (al di là del grande risultato britannico − 27 ori, 23 argenti, 17 bronzi − frutto di un’evidente onda virtuosa derivata da Londra 2012, nessuno ha notato, per esempio, il sostanziale fallimento del Brasile paese ospitante − 7 ori, 6 argenti, 6 bronzi − o che l’ottimo risultato della Corea del Sud − 9 ori, 3 argenti, 9 bronzi − è stato conseguito con un numero di atleti di circa un terzo rispetto a quelli della spedizione azzurra), non può che costituire un dato parziale in un’ottica di più ampio respiro. Un’ottica che, pur non volendo recitare per forza la parte degli apocalittici a oltranza, ci risulta inconciliabile con le tendenze in essere, che sono quelle d’una sempre più massiccia spettacolarizzazione, la focalizzazione sui “personaggi” anziché sulle discipline (si pensi alla deludente − sic − Federica Pellegrini, mentre in rampa di lancio ci sono, a occhio, Ivan Zaytsev nonché il sopracitato e sovraesposto Tamberi), la discutibilissima e ostinata attenzione per il marketing (complimenti a chi ha permesso che le divise dei nostri si trasformassero in un’inguardabile operazione a vantaggio d’un marchio di moda, rinunciando, peraltro, al colore azzurro), fenomeni che, a nostro parere, sono esattamente agli antipodi rispetto a ciò che lo sport dovrebbe, e potrebbe, rappresentare per un paese. Ma, probabilmente e non per la prima volta, siamo noi a trovarci dalla parte del torto.