Come già accennato nell’articolo sulle calciatrici italiane all’estero, riteniamo sia doveroso fare un approfondimento sul mondo normativo che circonda il calcio femminile in Italia, anche se sarebbe meglio parlare di vuoto normativo piuttosto che mondo normativo.
Partiamo dalla legge di riferimento, ovvero la legge n.91 del 23 marzo 1981 dal titolo “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti“. In questa legge si stabilisce che “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni.” Sempre secondo questa legge, le federazioni sportive hanno qualificato come professionistiche solo sei discipline del panorama sportivo (su sessanta) e solo per gli atleti maschi: calcio fino alla C2, basket serie A1 e A2, boxe, golf (sì, il golf), motociclismo e ciclismo su strada.
Nessuna disciplina sportiva femminile è ritenuta quindi “professionista” e quindi le donne atlete sono tutte “dilettanti” e per questo è loro impedito l’accesso a tutta una serie di tutele, indipendentemente dal fatto che pratichino lo sport come attività lavorativa e indipendentemente dal loro livello tecnico-agonistico. Non solo, ora anche alcune federazioni sportive come quella del pugilato hanno abolito la categoria “professionista”.
Le ragazze, quindi, non hanno la possibilità di farsi valere sia a livello occupazionale che previdenziale e soprattutto in caso di maternità (cosa assurda, questa) nonostante le atlete siano tutelate in senso lato dal DL 151/2001 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità“. Eppure in Italia non sono poche le denunce da parte delle atlete di contratti che pretendono una “clausola anti-gravidanza”, così come conferma Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive: “In molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l’espulsione immediata dalla società e il rischio di non poter più tornare a gareggiare”. Il caso di cronaca più recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo che, per non essersi presentata ai ritiri previsti dalla sua Federazione in seguito alla maternità, non è stata convocata per le Olimpiadi di Rio. E tutto questo nonostante ci siano numerosi studi medici in materia che testimoniano come sia infondata qualsiasi interferenza negativa di una gravidanza con la pratica sportiva.
Non solo: esiste una Risoluzione del 2003 del Parlamento Europeo dove si dichiara che “lo sport femminile è l’espressione del diritto alla parità e alla libertà di tutte le donne di disporre del proprio corpo e di occupare lo spazio pubblico, a prescindere dalla cittadinanza, dall’età, dalla menomazione fisica, dall’orientamento sessuale, dalla religione“. La stessa Risoluzione sollecita gli Stati Membri ad abolire la distinzione tra discipline sportive maschili e femminili.
Questa Risoluzione al momento non è stata recepita dal nostro paese (come ben sanno tutte le sportive italiane) e una interrogazione a risposta scritta in tal senso, la 4/12495, presentata l’11 marzo di quest’anno dalla deputata Beatrice Brignone al momento è ancora ferma in Parlamento (il suo iter parlamentare indica un laconico “in corso“). Ad aggiungere ulteriore assurdità alla situazione c’è la Carta Europea dei diritti delle donne nello sport scritta dalla Uisp insieme insieme ad atlete e giornaliste nel lontano 1985 che si rivolgeva alle organizzazioni e alle federazioni sportive per incentivare campagne a favore delle pari opportunità fra donne e uomini nello sport: nel marzo 2014 la Camera approvò una mozione che obbligava le istituzioni a prendere atto delle effettive istruzioni della Carta per attivare iniziative economiche e normative per promuovere le pari opportunità nella pratica sportiva. Ma al momento molto è rimasto solo sulla Carta.
Ora prendiamo in esame il calcio femminile in Italia: dai dati del 2016 della FIGC le calciatrici in Italia sono solo 22.564 contro 1.087.244 uomini ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante aumento con un tasso di crescita del 5% annuo. Nonostante questo andazzo e l’aver ospitato a Reggio Emilia la finale della Women’s Champions League non si hanno notizie dal fronte FIGC di una legge che termini questo medioevo sportivo. Perchè medioevo? Facciamo un esempio pratico, parliamo di soldi: lo stipendio più alto di una giocatrice di calcio si aggira intorno ai seimila euro al mese e non credo ci sia da argomentare sulla differenza tra questo stipendio e gli ingaggi milionari delle controparti maschili.
Terminiamo questo pezzo con le parole di Luisa Rizzitelli, la presidente dell’associazione delle atlete italiane Assist, che ben riassumono la situazione: “Non è solo una questione di titoli, che rende ridicolo definire “dilettanti” sportive come Federica Pellegrini o Francesca Schiavone, ma anche di tutele. Essere professioniste permette di accedere alle garanzie previdenziali, sanitarie, contrattuali previste per i lavoratori del settore, compreso il tfr a fine contratto. Per le donne non è così e in più ci troviamo di fronte al paradosso che a causa delle decisioni di Coni e Federazioni, non possiamo usufruire di una legge dello Stato: è incostituzionale.”