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Olimpiadi, tra utopia e contraddizioni

Ancora in empatica apnea per la girandola di emozioni che ha visto Niccolò Campriani tornare all’oro olimpico (carabina 10 metri ad aria compressa, gara in cui aveva colto l’argento alle Olimpiadi di Londra 2012, oltre ad aver trionfato nella carabina 50 metri tre posizioni) e Johnny Peliello non riuscire a scrollarsi di dosso la maledizione a cinque cerchi (che, in tutta probabilità, non avrà altre occasioni di sfatare a 46 anni, con quattro argenti e un bronzo in sette edizioni, a fronte di dieci mondiali e dodici europei, per dire solo degli ori), ci troviamo, per l’ennesima volta in questi giorni, a considerare il medagliere animati dal più insperato ottimismo. Il temporaneo secondo posto, con nove metalli, concorrendo con la superpotenza cinese e l’Australia, rappresenta un gran bel parziale, con il rammarico di altri plausibili successi sfumati, su tutti quello del meraviglioso Vincenzo Nibali, sfortunatissimo sull’asfalto carioca rivelatoglisi ancora una volta fatale (il pensiero è andato, ovviamente, al mondiale di Firenze 2013), dopo una condotta di gara esemplare da parte di una nazionale che, per quanto nella ridotta versione olimpica, ha confermato ancora una volta di valere il suo storico soprannome, La Squadra.

È senz’altro vero che le Olimpiadi rappresentano la manifestazione regina dello sport mondiale e, al contempo, un evidente paradosso, se messe in relazione alle discipline in cui il professionismo è fenomeno maggiormente consolidato. Prendiamo la tortuosa vicenda del calcio, ché pure è specialità quasi sempre inclusa nella programmazione a cinque cerchi (assente solo da Atene 1896 e Los Angeles 1932), o il tennis, riammesso dopo lungo tempo nel 1988, con l’inclusione dei tornei olimpici nel computo dei punteggi iridati da ATP e WTA; o, ancora, il golf, altra disciplina inclusa per attrarre sponsor e visibilità (negli USA soprattutto), ma che, di per sé, non avrebbe certo bisogno della vetrina olimpica per sussistere.
Se, infatti, andiamo a scorrere gli elenchi di tennisti e golfisti convenuti nella Cidade Maravilhosa a contendersi un posto al sole, è del tutto evidente come l’appeal delle rispettive competizioni sia tuttora oggetto di valutazioni controverse da parte degli stessi atleti: l’assenza di cinque dei primi dieci ATP al mondo (pur mettendo l’asterisco a quella di Federer, che avrebbe partecipato più che volentieri) la dice lunga, così come quella dei golfisti, specie in campo maschile (soltanto otto sui primi venti della classifica, e nessuno dei primi quattro).

Allo stesso modo, fatta salva l’appetibilità in questo senso di atletica leggera, ma anche di basket (lo scivolone azzurro di Torino, del tutto giustificato vista la bella Croazia vittoriosa contro gli spagnoli, costerà caro alla nostra prima vera generazione NBA in termini di memoria storica)volleynuoto, ci pare chiaro come ogni edizione dell’Olimpiade, nella dichiarata urgenza di stabilire a livello simbolico la pari dignità delle varie discipline, non manchi d’evidenziarne, involontariamente, le innegabili differenze di status. Discorso rischioso, lo comprendiamo, specie da italiani se si ricorda come la scherma abbia da sempre garantito un serbatoio di successi spesso “necessario” per salvare in qualche modo il medagliere azzurro: è però difficile sostenere che l’oro del bravissimo Daniele Garozzo possa anche da lontano equipararsi a una vittoria in atletica leggera; e non diciamo nella gara regina, i 100 metri piani che rappresentano il non plus ultra tra le specialità in pista, ma pure nella maratona, nei 110 a ostacoli o nei 400: gare praticabili, e autenticamente praticate, in ogni parte del mondo e il cui bacino di atleti è tale da non poter essere paragonato a discipline assai più “di nicchia”, come, appunto, quella degli schermidori.

Nondimeno, i cinque cerchi, proprio nel loro palesare contraddizioni, regalano momenti di umanità che rappresentano una delle migliori e resistenti qualità dello sport: infatti, nonostante quanto sopra scritto, vedere le lacrime di dolore di Nole Đoković  e, pochi metri più in là, quelle di gioia da parte di Juan Martín del Potro è stato davvero toccante. Favoritissimo, il serbo ha perso a sorpresa con l’argentino (non propriamente un carneade, sia chiaro) precludendosi la possibilità d’inseguire un successo per lui importante e che, nel 2020, potrebbe non essere più alla sua portata. Dolore olimpico che accomuna Djoker al sopracitato King Roger, argento nel 2012, superato dal padrone di casa Andy Murray, qualche settimana battuto sullo stesso campo nella più “consueta” finale di Wimbledon. Quando si scende in campo, o in acqua o in pista, le considerazioni circostanziali stann0 a zero: si pensa a vincere, si prova a vincere e, alla fine, chi vince ride, chi perde piange e, soprattutto, chi non s’è presentato avrà sempre torto.

Anche per questo le Olimpiadi, utopia di concezione profondamente europea come ideale di mondo di nazioni unificate sotto i medesimi valori sportivi, mantengono qualcosa di romantico e speciale, nonostante l’ormai sempre più invadente peso degli sponsor, la differente percezione del concetto di nazione (ivi compreso quello di nazionalità), le immani disparità di risorse tra le discipline (a volte obiettivamente ingiustificabile: lo diciamo scrivendo su una testata che a partire dal nome si fa portatrice di tale contraddizione), le inesauribili fonti di sospetto e disillusione legate a doping e maneggi assortiti (mentre scriviamo l’annosissimo caso Schwazer è tutt’altro che archiviato). Il bello dei cinque cerchi è, in fondo, quello di riportare, fosse anche per un istante esile quanto una lacrima, professionisti specializzati e abituati ai riflettori a provare emozioni come fossero, e lo sono, semplici ragazzi. A prescindere dalla visibilità della disciplina, del conto in banca e della celebrità garantita dagli sponsor: per una volta, tutti uguali. O quasi.