L’altra Olimpiade – 5. Da De Coubertin a The Coubertin
Abbiamo parlato ieri del doping dei singoli, e della debolezza di un sistema che “premia” il rischio di infrangere la correttezza sportiva. Ma su un piano superiore, vale lo stesso?
Già con la guerra fredda le Olimpiadi sono state, per la nazione ospitante, uno status symbol: se Berlino 1936 celebrava il Terzo Reich, a pochi giorni dalla fine della guerra, nel 1945, i cinque cerchi per l’edizione del ’48 vengono assegnati a Londra, il più strenuo bastione contro Hitler nonché “orfana” dei giochi del ’44 – il messaggio è chiaro. E, mentre la guerra fredda si avvicina al tramonto, abbiamo la doppietta Mosca-Los Angeles, con boicottaggi incrociati USA-URSS. Non si smette mai.
Faccio fatica a immaginare un’altra edizione dei Giochi in Finlandia (è successo nel 1952); perché un evento di questo calibro è diventato il soggetto perfetto per dimostrare la volontà di potenza. Solo in anni recenti, Pechino 2008 ha magnificato il capitalismo comunista, e anche Sochi 2014 rientrava in una logica di glorificazione (con annesso gran premio di Formula 1, e così via). Su Tōkyō 2020, posso dire solo che già si parla di missili nordcoreani. E, quanto a potenza e problemi, Rio 2016 non fa eccezione.
Dovevano essere le Olimpiadi del lancio planetario del Brasile come ridisegnato dal Partito dei Lavoratori di Lula e poi di Dilma Rousseff; e invece sono le Olimpiadi di Michel Temer, vicepresidente e facente funzione dopo che uno scandalo ha decapitato il governo per almeno sei mesi. E saranno quindi anche le Olimpiadi del villaggio aperto ma non finito, della baia di Rio inquinata e di ciò che non vogliamo vedere. Tra volontà e potenza, ne manca una (decidete voi quale).
Perché tutto ciò? Perché si deve puntare in alto, a scapito di tutto; e perché l’unico internazionalismo che conosciamo davvero si chiama denaro. La butto in politica: perché se a Pechino il governo fu criticato perché mandò solo il sottosegretario allo sport, adesso ce la prendiamo perché va direttamente il presidente del consiglio. Doppio vincolo.
Quando anche il papa è stato preso quasi alla fine del mondo, ecco le prime Olimpiadi sudamericane. Poteva sembrare un incrocio pefetto per riportare i Giochi a essere una competizione amichevole tra rivali e non nemici; ma probabilmente il 2016 non era l’anno giusto.
Stasera, quando all’Estádio Jornalista Mário Filho (toh, un collega!), meglio noto come Maracanã, come sempre mi emozionerò quando la Grecia sfilerà per prima (e gli Stati Uniti prima di quando qualcuno vorrebbe), ma poi comincerò a chiedermi se non siamo ancora a fare la guerra per interposta Olimpiade. O se la storia delle Olimpiadi non sia un po’ finita: adesso è solo una caccia al record, cioè ai premi.
Ma, più che di fine della storia, vorrei che si parlasse di fine della geografia. Più che dell’onestà di chi si esprime con valori da apparato digerente, vorrei che si parlasse di come autoeducarsi al rispetto. A smetterla di nascondersi dietro un “ma”. E a riportare le Olimpiadi nei posti più “strani”: che sia una manifestazione irriverente. In cui piangere e sorridere assieme, pensando alla competizione che ci unisce giorno dopo giorno.
(5. – fine)
Puntate precedenti:
1. Il fratello buono
2. La prosecuzione della pace con altri mezzi
3. Fuori tempo, fuori luogo
4. L’importante è poter partecipare