Da alcune settimane si rincorrono le notizie sugli esclusi eccellenti delle Olimpiadi: il famigerato Team USA, lo schiacciasassi del basket, non potrà contare né su Steph Curry né su LeBron James; la Svizzera nel tennis valeva una medaglia, ma sia Federer che Wawrinka hanno dovuto rinunciare per infortunio; il golf, che rientra nei giochi olimpici dopo oltre un secolo (uniche apparizioni a Parigi 1900 e Saint Louis 1904), falcidiato dal rischio del virus Zika, ha visto le rinunce di sin troppi favoriti (tra cui il numero uno, Jason Day).
Una notizia in controtendenza ci viene in soccorso (la nuotatrice svizzera Maria Ugolkova potrà partecipare a Rio 2016 grazie ai suoi tifosi) prima di arrivare ai dolori dei nostri Gianmarco Tamberi (salto in alto), fuori per una lesione ai legamenti, e Valentina Diouf (pallavolo), assente per scelta tecnica. O Alex Schwazer (marcia) e Viktoria Orsi Toth (beach volley), per doping.
Si è parlato di doping di Stato per la Russia, e meglio non usare ulteriori aggettivi per Schwazer. Ma il problema è più profondo di quanto non si creda. Doparsi è stupido, doparsi è disonesto: vero, ma è solo una piccola parte del problema. E la responsabilità indiretta più rilevante è strettamente legata a noi, al pubblico degli appassionati.
Se un atleta si dopa, si dice che è colpa sua. Lo abbiamo glorificato quando ha vinto, adesso giù a criticarlo: vale per Lance Armstrong (che ancora non avrebbe restituito la medaglia di bronzo a cronometro, “vinta” a Sydney 2000), vale per Schwazer. Comprensibile, ma non so quanto legittimo: è una concatenazione psicologica non temperata da alcuna razionalità. È una reazione istintiva, animalesca. Non che non sia legittima: lo è. Ma, a modesto avviso di chi scrive, è anche sbagliata.
Non nascondiamoci dietro un dito: nel corso dei decenni, dietro allo sport si sono accumulati interessi economici sempre più importanti (e non c’è bisogno di scomodare Blatter). Già nel 1912 Jim Thorpe portò a casa due medaglie d’oro che gli furono revocate per professionismo (restituite nel… 1983!); e, oggi che il professionismo è la regola, la pressione (degli sponsor, e dei tifosi) è incalzante: servono successi su successi.
Siamo sicuri che doparsi sia stupido? Se così fosse, i casi di dopaggio sarebbero pochi, e di norma ridotti a figure marginali. E invece il gioco è più sottile: vale la pena di gonfiare i propri numeri solo se il premio è sufficientemente alto. Cioè: i premi-gara, gli sponsor, i record, la fama sono più grandi e più importanti del rischio. Prendiamola sotto una prospettiva economica: se l’incentivo (il premio) al record è troppo alto, il doping è un rischio percorribile (anche a fronte di possibili problemi di salute).
Non bisogna stupirsi che il doping esista ancora, e diventi sempre più sofisticato: in un certo senso, siamo noi a volerlo e propugnarlo. Dobbiamo doparci di emozioni e di storie rassicuranti, abbiamo bisogno del campione che batte tutti i record e ci dimostra che tutto si può fare. Abbiamo bisogno di eroi in cui identificarci: e per poterlo fare paghiamo (scarpe, attrezzature, abbonamenti televisivi…).
Ogni volta che vedo un atleta che viene scovato, umanamente mi dispiace per la sua debolezza intima; ma socialmente esulto. Un eroe in meno: non ne abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno di esempi truffaldini. Per dire: nell’atletica, la Russia avrà solo Darya Klishina, fin qui risultata insospettabile. Buon per lei, sperando che non ci siano sorprese. Perché l’importante è poter partecipare.
Tutto questo per tacere poi di quando l’incentivo non è più solo il successo personale, ma invece si chiama grandezza e affermazione internazionale e geopolitica: ma di quello possiamo parlare domani.
(4. – continua)
Puntate precedenti:
1. Il fratello buono
2. La prosecuzione della pace con altri mezzi
3. Fuori tempo, fuori luogo