Home » L’altra Olimpiade – 3. Fuori tempo, fuori luogo

Copyright Pietro Luigi Borgia - MondoSportivo

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Credo e temo che lo spartiacque sia stato Barcellona 1992: in un quadriennio olimpico può succedere di tutto, ma la caduta del Muro, la disgregazione di URSS e Iugoslavia, e volendo anche la liberazione di Nelson Mandela, mi paiono abbastanza per dire che il mondo era irriconoscibile, e aveva preso una nuova direzione rispetto a Seul 1988.

Nel medagliere figurano ben due rappresentative speciali: la Squadra Unificata, per raggruppare tutti gli atleti ex sovietici (eccezion fatta per quelli delle repubbliche baltiche, già dichiaratesi indipendenti); e i Partecipanti Olimpici Indipendenti, ovvero gli ex-iugoslavi con situazioni particolari (ancora in guerra, o senza un Comitato Olimpico riconosciuto). Due creature volute dal presidente del CIO, lo spagnolo Juan Antonio Samaranch.

Riguardo per un attimo l’elenco delle città che si erano candidate a ospitare il braciere olimpico: in ordine di “eliminazione”, Amsterdam, Birmingham, Belgrado, Brisbane, infine Parigi. Con i criteri odierni, solo Parigi potrebbe competere. Perché la svolta era già in atto: nella pallacanestro erano arrivati i professionisti (e quindi il Dream Team), l’evento prendeva una nuova forma.

È uno degli attimi più forti, sportivamente parlando, che io ricordi: l’infortunio di Derek Redmond, durante la finale dei 400 metri, con l’atleta che zoppicando vuole tagliare il traguardo, mentre il padre supera la sicurezza, scende in pista, lo abbraccia e lo aiuta. Un momento senza tempo: lo stadio applaude, ma per il resto ci sono pochi fotografi, non ci viene riproposto l’infortunio da ogni angolazione possibile e immaginabile, e così via. A suo modo, resta un momento intimo.

Il contrasto con Atlanta 1996 non potrebbe essere più totale. Quando Kerri Strug, pur con un infortunio alla caviglia, affronta l’ultimo salto che vale una medaglia d’oro a squadre, e riatterra su una gamba sola (prima di accasciarsi), il palazzo viene giù: è un momento storico, di piazza. Io ero davanti a una TV ancora in bianco e nero (in casa mia si è poco moderni), e quel distacco l’ho capito solo anni dopo.

Si passa a una fase nuova: le Olimpiadi moderne sono entrate nella fase mediatica. Cioè si punta in alto, sempre. Solo capitali per le prossime manifestazioni; solo il massimo, solo dimostrare di valerlo (ne riparleremo).

In altre parole: crollato il Muro (ed è solo una coincidenza temporale), anche le Olimpiadi sono diventate qualcosa di differente. Solo super, solo grandi emozioni, solo grandi responsabilità. Solo grandi denari, grandi sponsor, grandi interviste. O grandi ritardi, se è vero che per il villaggio olimpico di Rio siamo fuori tempo. La domanda è: ma non è che siamo anche fuori luogo?

Scelgo Atene per la bellezza (e per i miei vent’anni), ma le Olimpiadi a cui sono più affezionato restano quelle di Sydney: impeccabili, ma a misura d’uomo. Samaranch, l’uomo che aveva rivoluzionato il CIO (e che è comunque una figura controversa), in Australia lasciava in un colpo due cose: la presidenza del Comitato, avendo già annunciato di non ricandidarsi più alla presidenza; e la moglie Bibi, morta a Barcellona proprio il giorno successivo all’inaugurazione. Un periodo particolare, due amori destinati a finire mentre il mondo evolve. E il sorriso e il grido “Aussie! Aussie! Aussie!”, nel discorso conclusivo di un uomo condannato a sopravvivere alle sue creature preferite.

(3. – continua)

Puntate precedenti:
1. Il fratello buono
2. La prosecuzione della pace con altri mezzi