Editoriali

Esistono ancora le identità dei club?

In tempi di proprietà straniere, passaggi di mano, ironie più o meno celate sulla perduta italianità dei patron, sentir parlare di identità dei club sa parecchio di anacronismo.

L’archetipo dell’imprenditore locale che investe parte dei guadagni di famiglia per restituire e dare qualcosa alla comunità sembra superato, data l’incidenza sempre maggiore dei ricavi tv e l’avvenuto passaggio dal calcio di un tempo a quello moderno, nel bene come nel male.

Scopo del mio scritto di stamattina non è, come potrebbe sembrare, dipingere con rimpianto il locus amoenus del football provinciale che fu, o peggio rivendicarlo, ma ragionare su come anche quelle poche certezze che avevamo siano ormai saltate e occorra valutare caso per caso e rinunciare a tutti i dati che davamo per acquisiti, in termini di blasone, valori e altre categorie un tempo immutabili.

Le due società che mi hanno suscitato questi due pensieri sparsi sono Juventus e Manchester United, autentici giganti del calcio mondiale. La prima – vero “Real Madrid d’Italia” in termini di bacheca, tradizione, numero di tifosi e “odio” dei tifosi rivali – ha completato un processo di modernizzazione durato anni e passato per Calciopoli, i suoi dubbi, le sue ombre e i rancori che ancora oggi alimenta.

Se esiste un club – lo dimostrano le amichevoli di Villar Perosa, la famiglia Agnelli, quel senso di “famiglia” che lo stile-Juve incarna – in qualche modo sino a poco tempo ancora a dimensione familiare (ma che famiglia!) tra i top del campionato italiano, questo è quello bianconero; ciò non ha tuttavia impedito ai quadri della società di cambiare, passando dalla gestione Moggi a quella Marotta e un modo diverso di vedere il mercato e aggredirlo, passando per lo stadio di proprietà.

Una visione propriamente europea (e molto “inglese”) della società di calcio come struttura, di superare tutti gli altri avendo capito prima in che direzione soffiava il vento.

Se già sotto la Triade la Juve era attenta a bilanci, plusvalenze e certamente meno morattiana nelle spese per i cartellini dei calciatori, l’attuale dirigenza ha trovato prima degli altri un modo di autofinanziarsi diverso, nuovo per il calcio italiano. Diventare europei, imitare il calcio inglese e rendere possibile la competizione anche economica con i grandi club del resto d’Europa.

Il tutto mentre Milan e Inter, imperterrite, insistevano con metodi vecchi, spese ingiustificate o comunque fini a sé stesse, incapaci di svecchiarsi e ricostruirsi veramente da zero.

Se il pagamento della clausola di 94 milioni per il centravanti più forte del campionato e del Napoli rivale (?) nella corsa scudetto è molto distante dall’identità della Juventus di un tempo, a questo tipo di maturità e autorevolezza nelle scelte di mercato i bianconeri sono arrivati grazie al lavoro di questi anni sulla società, le sue strutture e risorse: se un’identità juventina esiste, ne possiamo parlare proprio perché ha saputo andare oltre schemi vecchi e consolidati ed entrare davvero nel terzo millennio.

Diverso è il caso del Manchester United, club che dalla nascita della Premier League più di tutti ha saputo essere simbolo del football inglese post-Heysel, entrando negli anni ’90 da assoluto protagonista sino ad agganciare e superare il Liverpool in termini di titoli messi in bacheca.

Nonostante il fresco contante portato dai diritti televisivi, mai sotto Ferguson i Red Devils avevano sperperato; e anche quelle poche spese pazze per i cartellini (qualcuno ha detto Veron?) erano entrate nel discorso più ampio della valorizzazione del talento locale: puntare su giovani magari britannici, rivenderli a buon prezzo e poi puntellare la rosa con qualche innesto internazionale. O portare gli stessi local lads a divenire specialisti mondiali nel loro ruolo (Scholes, Giggs, Neville ecc.).

Adesso, perso Sir Alex e naufragata la romantica idea di un altro britannico (David Moyes) che sottotraccia potesse lavorare sul lungo periodo, la società spende e spande in lungo e in largo per qualsivoglia giocare.

Bulimica, non dà mai una seconda chance a chi non subito s’è adattato ai ritmi della Premier, cede a meno di quanto speso precedentemente, prende superstar a parametro zero o in prestito secco dando loro stipendi da capogiro; non si preoccupa, quando va a ricomprare a peso d’oro un talento perso a parametro zero pochi anni prima, della figuraccia planetaria, né sente di doversene curare: ha preso l’allenatore meno programmatore di tutti, quello che di progetto, lungo termine, giovani e lungimiranza non vuole sentirne parlare.

E neanche di identità: Juve e United sono nel terzo millennio, ognuna a modo suo.

E preferisco la Juve, concedetemelo.

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Matteo Portoghese