Un’insalata russa per la stampa italiana
A scorrere, negli ultimi mesi, i giornali sportivi e non, l’impressione è stata, a più riprese, quella d’essere ritornati agli anni Ottanta, mitici per alcuni (non per chi scrive), caratterizzati da una Guerra Fredda che non risparmiava nessun ambito e che, anzi, nello sport individuava uno dei suoi più evidenti e principali poli d’attrazione. Anni in cui l’Occidente libero e pulito (evidentemente Ben Johnson avrà avuto degli avi a Leningrado) si trovava a fronteggiare il famigerato doping di stato, pratica di sofisticazione di massa operato dall’Impero del Male (Evil Empire, definizione coniata appositamente dai ghost-writer di Ronnie Reagan) e, in particolare, da alcune sue concretizzazioni nazionali, Germania Est in prima istanza.
Il rapporto redatto dal legale canadese Richard McLaren (qui disponibile in pdf) sembrerebbe contenere prove schiaccianti contro un sistema che confermerebbe l’idea di uno stato russo quale formazione tentacolare, operante in qualsiasi ambito secondo la pratica della menzogna, della copertura e della disonestà. I media italiani, non particolarmente noti e per lungimiranza e per capacità di analisi che non siano dettate da discutibili logiche di convenienza interna (ancora qualche settimana e vedrete le giravolte per dire che, in effetti, alla fine, Donald Trump non è così impresentabile come ce lo hanno descritto sino a qualche mese addietro…), si sono massicciamente schierati a favore della vulgata diffusa dalla WADA, l’agenzia mondiale per la lotta al doping, dando praticamente per scontata la squalifica massiva di tutti gli atleti russi in vista dei Giochi Olimpici di Rio, alla stregua della decisione intrapresa dalla IAAF che ha escluso Mosca dal programma di gare d’atletica leggera. Quando si dice, a mali estremi, estremi rimedi.
Ed è delle ultime ore la notizia che, a fronte di siffatte prove incontrovertibili… il Comitato Olimpico Internazionale ha rifiutato l’idea della “scomunica” collettiva dei russi, preferendo l’analisi di ogni singolo caso. Nella fattispecie: la decisione della federazione d’atletica è confermata, e la delegazione che partirà da Mosca sarà composta, in tutta probabilità, da 319 atleti (e non 387, secondo la richiesta del COR, il Comitato Olimpico Russo), ognuno di questi passato al vaglio da un’apposita commissione e, ci potremmo scommettere, particolarmente attenzionato per tutto il corso della manifestazione. Da questo punto di vista, il CIO si gioca davvero una bella fetta di credibilità in un momento particolarmente delicato della propria storia, giacché i ritardi (previdibilissimi) sulla terminazione degli impianti brasiliani e la delicata situazione sul fronte della sicurezza fanno di Rio 2016 una delle edizioni più controverse della storia a cinque cerchi.
Curioso, ma nemmeno tanto, che, dopo essersi lungamente infervorati contro i cattivi che vengono dall’Est, la notizia della pur parziale marcia indietro olimpica sia passata alquanto in cavalleria sulla stampa di casa nostra: il coraggio, se uno non ce l’ha, non è che se lo può dare, figuriamoci l’eleganza. Certo che le articolesse indignate vergate da gente che ha incensato all’istante il redento Alex Schwazer non facendosi neppure cogliere da un sottilissimo dubbio (senza doping e privi di ritmo gara si corre su tempi inferiori alle ultime vittorie sporche, come no…) fanno davvero sorridere, ma tant’è.
Al di là di quel che accadrà a Rio, ammesso che l’Olimpiade si disputi davvero (siamo ironici, ma neppure troppo), cosa pensare riguardo a un mondo dello sport mai come ora a doppio filo legato a interessi e speculazioni politiche internazionali? Nell’Occidente libero, non da ieri, l’imperativo è ben chiaro: dagli al russo, figura ideale per qualsiasi raffigurazione negativa. Il pensiero corre all’Ivan Drago di stalloniana memoria, la cui battuta “Io ti spiezzo in due” (nella versione originale un assai meno iconico “I must break you“) è annoverabile tra le immagini pop più efficaci di quell’epoca d’irriducibile contrapposizione (su Rocky che continua a combattere sino alla pensione, e oltre, soprassediamo per pietà).
Non che Mosca abbia fatto niente per ingraziarsi gli interlocutori, usiamo un eufemismo, ma, provando a uscire da un’ottica di puro e semplice contrasto, l’idea è che questa Russia, proprio perché non più in ginocchio come negli anni Novanta, proprio perché potenza più che mai decisa ad affermare il proprio ruolo sullo scacchiere internazionale (pure a discapito della NATO), abbia da tempo iniziato a infastidire e che lo sport, in qualità di fondamentale ambito di rappresentazione, sia un mezzo assai efficace all’interno di una campagna ben più ampia. Di certo, la cautela del CIO ci pare, sotto il profilo del buon senso, una misura da sottoscrivere: non si può accettare di buttar via il bambino assieme all’acqua sporca e proprio l’antidoping dovrebbe prefiggersi lo scopo di garantire tutti gli atleti puliti. Anche, e soprattutto, se di nazionalità russa.