L’ha vinta Mino

Capirai, cosa vuoi che siano 120 milioni di euro. Capirai, cosa vuoi che sia una bella fetta di questi soldi, circa 30 milioni, che finisce dritta dritta nelle taschee di Mino Raiola. Uno che si è fatto da solo. Davvero, nessuna ironia. Un self made man per eccellenza. E non ce ne vogliano Bill Gates, Mark Zuckerberg, e non ci fulmini Steve Jobs lì dall’iperuranio dei nerd passati a miglior vita. Questi ultimi tre, dei geni, dei cervelloni che hanno rivoluzionato il mondo e lo hanno migliorato (?) con le loro intuizioni.

Mino, invece, non è un cervellone. Mino non ha migliorato il mondo. Mino ha migliorato se stesso. Salernitano di Angri, è partito da quella pizzeria in Olanda ed è arrivato a intascarsi milioni su milioni, intuendo per primo quello che perfino i suoi colleghi più esperti non sono arrivati a comprendere del tutto: il calcio per qualcuno è uno sport, per molti è una passione; per quelli come lui, invece, deve essere solo e soltanto un lavoro.

E il lavoro, nel mondo, ha un unico fine: guadagnare. Stop.

La sagacia di Mino Raiola. Puntare sulla passione della massa per muovere i suoi assistiti, scelti con cura: solo e soltanto giocatori che fossero grandi lavoratori del pallone. Non bandiere, quelle non cambiano mai maglia: inutile puntarci. Neanche gente che si affezionasse facilmente. Servivano ragazzi che avessero fame, che avessero voglia di avventure, e perché no: di soldi. Gente che si fidasse di lui, e che capisse che, facendolo lavorare con calma, ne avrebbero guadagnato entrambe le parti in causa: loro (gli assistiti) e lui (il procuratore). Niente sentimenti. Vietati. Solo pura e concreta ambizione.

Il caso Pogba: da togliersi il cappello. Sul serio. Era il 2012 quando il centrocampista francese fece in modo di farsi cacciare da Ferguson, all’epoca manager del Manchester United (lui, sì: una bandiera). Lo prese la Juve, Pogba, a paramentro zero. Ventenne di talento e poco altro, all’epoca; un diamante da sgrezzare, da far crescere, da lucidare e… rimettere sul mercato. Quattro anni dopo, a 120 milioni di euro. Con tanto di clausola che garantisse il 20 percento (venti-percento) del guadagno sulla vendita al calciatore e… al suo manager.

Chiaro. Evidente. Tutto programmato. Mino Raiola sapeva già tutto. Mino ha letto nel futuro. Sapeva che quel talento sarebbe esploso, glielo leggeva negli occhi, glielo deduceva dalla personalità. È più o meno come piazzare un tesoretto in una banca che ti garantisce il 120% di interesse (se ne esiste una, ditemi dov’è): questo è quanto ha fatto Raiola con Pogba. Puntare sulla solidità del francese, far forza sulla sua personalità per vincere su Ferguson prima, su Marotta poi, e regalare una plusvalenza pazzesca alla Juventus nel giro di quattro anni. Guadagnandoci in prima persona, ovviamente, con la suddetta super clausola piazzata ad hoc quando Pogba, per tutti, non era ancora nessuno.

Aveva calcolato ogni cosa, lui. Sapeva tutto. Così come sapeva che Ibrahimović era uno con cinque o sei squadre tifate da bambino.

Ha vinto, Raiola. Mino da Angri: uno per cui il calcio è un lavoro. Niente più.

Il lavoro più bello del mondo.

Published by
Alex Milone