Editoriali

L’antieroe moderno: quando il silenzio fa rumore

Niente tour, niente addio in grande stile, nessuna celebrazione sopra le righe. In perfetto stile Duncan, il #21 in canotta neroargento ha dato il suo addio alla pallacanestro, scatenando reazioni controverse nel sottoscritto e, più in generale, in tutti quelli che non hanno potuto fare altro che idolatrarlo da quando venne scelto alla #1 nel Draft 1997. Da un lato la delusione perché, nella stessa stagione, perdere lui e Kobe Bryant è un duro colpo per qualsiasi appassionato di basket: dall’altro, però, è evidente come fosse iniziato il declino – lento, nonostante i 40 anni, ma inesorabile – verso la mediocrità. E Tim Duncan di mediocre non ha avuto, non ha e non avrà mai nulla.

Il rapporto con Gregg Popovich, invidiato persino da un egocentrico e protagonista nato come Kobe, è uno dei più belli e longevi nella storia dello sport. Definito dallo stesso Pop come il comune denominatore di tutte le vittorie dei San Antonio Spurs, Duncan ha saputo essere un leader silenzioso nello spogliatoio – ancor prima che un eccellente giocatore di pallacanestro – in controtendenza con quelli che sono “gli eroi moderni” dello sport. Nessun tatuaggio con scritto “The Chosen One” sulla schiena, nessuna dichiarazione che mettesse in imbarazzo i propri compagni per favorire il proprio ego, nessun “patto col diavolo” per andare a vincere un anello altrove, in un posto che non fosse arroventato dal caldo sole del Texas. E così, in un mondo sportivo sempre più popolato da arroganti vincenti e umili gregari, Tim Duncan è riuscito a riassumere le due attitudini nel più nobile dei modi, diventando il vincente umile che, parola dello stesso Popovich, gli rivolgeva la parola in allenamento una volta ogni due settimane.

Tim Duncan agli inizi della propria carriera, insieme a David Robinson.

La leggenda di Duncan, futuro Hall of Famer e probabilmente uno dei lunghi più forti nella storia del gioco, non è soltanto costruita sulla base di un carattere fuori dal comune. C’è molto di più. L’appoggio di tabella dal gomito, così come in generale il suo gioco spalle a canestro, è probabilmente la specialità della casa ma in carriera è riuscito a costruire un gioco dalla media di tutto rispetto, agendo sia da 4 tattico vicino a un lungo tradizionale (Robinson, Oberto, Splitter ecc…) sia da 5 con un’ala grande atipica al suo fianco (Diaw su tutti). Per non parlare del talento a 360 gradi nella metà campo difensiva: nell’uno contro uno fronte a canestro, in aiuto sul penetratore o in post. Questo suo modificarsi costantemente per servire la squadra, senza perdere efficacia ed efficienza nelle statistiche individuali, lo hanno portato a essere uno dei più grandi trascinatori dell’era post Jordan.
Gli Spurs del 1999 e quelli del 2014, entrambi vincitori del Larry O’Brien Trophy, presentano molte differenze dal punto di vista prettamente tattico: più lenti e calcolatori i primi, frenetici ai limiti della schizofrenia i secondi. Le cosiddette scelte veloci o, come amano chiamarle dall’altra parte dell’oceano, quick decisions, non sono mai mancate all’epoca come nel passato più recente: così come la capacità e la volontà di condividere il pallone con il compagno al proprio fianco, senza protagonismi o voglia di diventare l’eroe di giornata.

Kawhi Leonard, erede designato di Tim Duncan, ha vinto il premio di MVP delle Finals 2014.

L’essere la nemesi dell’eroe moderno, tra l’altro, è certificato dalle tante testimonianze uscite fuori nel corso della sua carriera. Ponderando il giusto quelle scontate dei compagni di squadra, a stupire sono state quelle degli avversari; Etan Thomas raccontò di come, una volta, durante una partita Duncan gli diede addirittura dei consigli su come muoversi in post contro di lui.
Dopo la sconfitta patita nel 2013 per mano dei Miami Heat, in pochi avrebbero avuto la forza di rialzarsi e tornare a lavorare duramente per inseguire il quinto titolo: soprattutto con 37 primavere compiute alle spalle, in una lega in cui l’atletismo e i muscoli sono sempre più padroni del gioco. L’intelligenza, nello sport come nella vita, ha fatto la differenza anche in questo caso.
In casa Spurs hanno già ingaggiato per sostituirlo un certo Pau Gasol, un altro che nella propria carriera si è dovuto trasformare per mantenersi ai massimi livelli. Tatticamente, quindi, lo spagnolo avrà l’onore e l’onere di prendere il posto occupato negli ultimi diciannove anni da Duncan: dal punto di vista etico e morale, invece, a San Antonio hanno l’erede in casa già dal 2011. Tale Kawhi Leonard, anch’egli completamente devoto all’etica, al teamwork e alle poche parole: proprio in questo modo è diventata una delle ali piccole più forti dell’NBA nonostante molti scout, al termine del Draft 2011, lo avessero etichettato come uno destinato a diventare ottimo nella metà campo difensiva, ma con una scarsa propensione a segnare con continuità. Come no.

Il Duncan ritiratosi un paio di giorni fa è lo stesso ragazzo che rinunciò a sbarcare in NBA un paio d’anni prima, per una promessa fatta in punto di morte alla madre. Una figura del genere mancherà in ogni caso al basket e allo sport in generale, indipendentemente dal numero di punti segnati o dai rimbalzi presi. Il suo essere così normale, in una lega che di normale ha poco o nulla, l’ha trasformato nell’uomo e nella leggenda che tutti conosciamo; e se davvero credete che il destino sia già scritto per ognuno di noi, un uomo che ha vissuto in contraddizione con gli altri non poteva non spendere un’intera carriera in Texas, la patria delle contraddizioni statunitensi per eccellenza. 211 centimetri di paradosso si ritirano: grazie per aver cambiato – in positivo – questo meraviglioso sport, Tim.

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Alessandro Lelli