Il Portogallo ha vinto un torneo imprevedibile, divertente più per la disattesa dei risultati che per la qualità del gioco espresso, a conferma d’una tradizione che vuole gli europei manifestazione assai più incline a sorprese e “favole” di quanto non ci abbiano offerto i vari mondiali cui abbiamo avuto modo di assistere. Nelle ultime sette edizioni, sono cinque le vittorie non scontate (non ci si inganni: la Germania 1996 non era affatto la miglior squadra, attraversando il suo punto più basso come dimostrato ai mondiali ’94 e ’98, e solo gli anni successivi hanno collocato in prospettiva una Spagna che, sino al 2008, era la “solita” incompiuta), il che, a nostro parere, rappresenta un valore aggiunto per un tipo di calcio che necessita letture circostanziate, giacché assai diverso rispetto a quello dei club, sviluppato in archi di tempo sensibilmente più ampi.
I tornei che accompagnano la stagione nella sua interezza vedono squadre “compiute” (al netto d’un mercato sempre più fonte di precarietà per gli organici anziché sistemazione di questi), con giocatori abituati a giocare assieme e, dunque, maggiormente in grado di praticare le idee di calcio degli allenatori. In otto, nove mesi di torneo, ogni squadra ha modo di capire quali siano le proprie aspirazioni plausibili, calibrandosi su di esse, dosando, soprattutto, le forze, giacché non esiste al mondo una compagine che possa giocare al 100% per tutta una stagione: la Champions League, con le sue delusioni puntuali e brucianti, lo testimonia forse meglio di qualsiasi altro titolo. Per contro, il calcio delle nazionali è, invece, più legato alla massimizzazione del risultato in un breve lasso di tempo, specie per squadre che non partano favorite: pare naturale, dunque, che possano prevalere formazioni ben calibrate in difesa e in cui l’organizzazione strutturale faccia eclissare il bel gioco in sé. Poi, certo, se la bella carambola di Gignac non avesse stampato il cuoio sul palo, qualcuno non in buona fede potrebbe scrivere d’un ritorno del calcio champagne di platiniana memoria, tessendo paragoni (al momento improponibili) tra antiche glorie transalpine e l’attuale stella juventina (per poco), protagonista, ma non è caso isolato, d’un campionato non proprio esaltante.
Innegabili ci paiono, quindi, alcuni punti emersi nel corso di Euro 2016, quali un certo trionfo della medietas, per non dire mediocrità: stelle (nate o nascenti) e nomi affermati hanno latitato, con qualche buona eccezione, tra cui il volitivo Gareth Bale (senza dimenticare il compagno di squadra Aaron Ramsey, nel nostro undici della competizione: con lui in campo, forse la semifinale col Portogallo sarebbe andata diversamente…), il furetto Griezmann, l’indiscutibile Kroos, ma pure Khedira e, perché no?, il nostro Bonucci, per quanto non rientri tra le nostre “fisse”. Molto meglio è andata alle squadre che, pur contando su qualche individualità notevole (come il Galles, ma il discorso vale per i neocampioni lusitani e pure per l’Italia operaia di Antonio Conte), affidandosi a un’accurata organizzazione corale e pur non facendo vedere niente di particolarmente nuovo, hanno prevalso su formazioni tecnicamente più fornite, ma non in grado di tradurre in reti una sterile superiorità. Fa infatti sensazione, spulciando tra le mille statistiche disponibili, leggere come il vittorioso Portogallo sia stato, nel corso di ben sette partite, in vantaggio per un totale di 73 minuti e, in un certo senso, il match esemplare dei rossoverdi è stato l’ottavo di finale con una bella e impossibile Croazia, terminato con zero tiri in porta nel corso dei novanta minuti regolamentari. Del resto, solo la semifinale contro il Galles non al meglio ha evitato agli uomini di Fernando Santos (autentico vincitore, morale ed effettivo) di centrare il primato peculiare d’un successo finale colto senza mai aver vinto una partita (se non ai supplementari o ai rigori). In un certo senso, paragonare questo Portogallo alla Grecia corsara del 2004 costituisce sì un’ingiustizia, ma nei confronti della squadra del buon Otto Rehhagel: quasi nessuno sembra ricordare che gli ellenici batterono non una, ma ben due volte i padroni di casa (2-1 nella partita d’esordio, oltre l’1-0 della finale), superando ai quarti la Francia (1-0) e, in semifinale, una Repubblica Ceca gran favorita (1-0 dopo 120′, affossando le speranze d’una grande generazione del calcio boemo), dopo aver incontrato nei gironi una Spagna ancora immatura (1-1) e una discreta Russia (1-2, sconfitta ininfluente per i futuri campioni a sorpresa).
Ci ripetiamo: è il calcio delle nazionali, bellezza, un calcio che “funziona” diversamente da quello dei club. Non ci s’illuda, infatti: la carriera di Zoltán Gera (il 10 ungherese, trentasettenne) non cambierà dall’esser stata quella di un professionista buono, ma ordinario a certi livelli, e così (non) sarà per molti altri piccoli e grandi protagonisti di questo torneo. Allo stesso modo, le molte delusioni (il già evocato Pogba, ma pure il Müller mai in gol nella storia della manifestazione, i vari Götze, Hazard, Martial, Lukaku, Fabregas, l’elenco potrebbe allungarsi a piacere) in quella sveltina che è un europeo avranno modo di mostrare le proprie non poche qualità al momento in cui la stagione dei club sarà iniziata. Lì prevarranno altri valori, e le rivincite non saranno poche.
Non si pensi, però, che il calcio delle nazionali sia, per questi motivi, qualcosa di necessariamente inferiore o sottovalutabile: i dati d’affluenza degli impianti francesi, tutti tra 87 e 98% della capienza effettiva, parlano chiaro e, sommati a quelli televisivi, raccontano d’un interesse vivace e generalizzato, ben più ampio di quello suscitato da campionati nazionali e coppe europee. Per quanto il concetto di nazione possa dirsi in crisi e nonostante tutti i problemi che si profilavano sul fronte dell’ordine pubblico, si può dire che Euro 2016 ci abbia consegnato un pallone (quello delle nazionali, appunto) ancora vivo e vegeto, in grado di alimentare storie (scopo principale di ogni sport), di piacere, riuscendo ancora (nonostante David Guetta e baracconate degne di peggior sorte) ad accendere i cuori sia degli appassionati del football sia di chi vi si avvicina soltanto in occasione delle grandi manifestazioni. È un patrimonio prezioso e sta(rebbe) agli organi competenti, UEFA e FIFA in prima istanza, non dilapidarlo scelleratamente.