Quanto odio uscire a testa alta
Non amo particolarmente scrivere in prima persona, specialmente quando uno degli obiettivi che mi prefiggo è quello di informare. Trovo che per fare sul serio informazione si debba cercare di guardare ai fatti con più distacco e oggettività possibile. Poi magari non ci si riesce ma l’intento dev’essere limpido, almeno quello. E rinunciare all’uso della prima persona è, secondo me, il primo passo verso la ricerca dell’oggettivo, del reale, del vero.
Stavolta però non riesco a fare diversamente. Non riesco a pensare ad altro che a una sequela di “io, io, io” e banalmente non me la sento di parlare a nome di MondoPallone fino in fondo mentre esprimo le considerazioni che mi sovvengono pensando alla partita di ieri tra Italia e Germania. Non riesco a non pensare che potrei sbagliarmi di grosso, che la mia lucidità di giudizio possa essere offuscata dal tifo e dalla passione, dalla simpatia, dall’empatia.
Quindi stavolta scelgo la strada comoda e parlo in prima persona, perché ritengo che sulla Nazionale ogni tifoso abbia il sacrosanto diritto di avere la sua visione delle cose, a maggior ragione quando si parla di pensieri che emergono come conseguenza delle reazioni emotive avute rispetto a quanto visto in campo e non di analisi tecnico/tattiche (quelle sono sì oggettive, invece).
Una cosa però mi sento di prometterla: cercherò di essere il meno retorico possibile perché è un attimo far diventare Conte Muzio Scevola e Zaza o Pellè gli Efialte della situazione, colpevoli di aver venduto le azzurre Termopili al Serse tedesco.
La prima sensazione avuta al termine di quella rigorata infinita è stata solo un’amarezza oceanica. L’amarezza tipica dell’uscire ai rigori, l’equivalente calcistico (ma più doloroso) della roulette russa, acuita dal fatto di essere riusciti ad arrivarci rimontando contro i tedeschi – palesemente i più forti di tutti – e aver visto i giocatori di questa strepitosa Germania campione del Mondo sbagliare tre rigori su cinque, un’enormità, che così facendo hanno anche consegnato all’Italia più di un match-ball per completare l’impresa. Mi ci sono arrovellato per ore e in bocca resta il gusto beffardo dell’occasione sciupata, non c’è niente da fare. E tra l’orgoglio per il bel cammino fatto fin qui e il sapore schifoso della grossa fregatura prevale il secondo.
Perché uscire così significa, dall’altro lato, che invece si poteva fare. Si poteva passare. Si poteva sognare ancora. Bastava solo segnare un altro rigore. Un misero rigore. Metterne tre su cinque alle spalle di Neuer, poco più della metà, un blando 60%. E invece niente. Un’eliminazione così ti lascia per terra esattamente come ti lasciava per terra il compagno antipatico delle elementari quando ti sceglieva come vittima del brillantissimo giochino dello sfilamento della sedia da sotto il sedere un attimo prima che tu possa buttartici a corpo morto senza guardare. Però senza la rabbia di allora ma con la sola compagnia della tristezza e una fortissima delusione. Non la delusione che deriva dal tracollo, tendenzialmente venata di disperazione, ira e umiliazione, ma quella più sottile, che somiglia alla disillusione tipica di un bel sogno che viene interrotto sul più bello, quando grazie a delle premesse incoraggianti prendi coraggio a sufficienza per pensare a ciò che potrebbe essere. Lo scontro con la realtà che quanto si è immaginato non avverrà mai finisce per essere una batosta clamorosa, purtroppo funziona così. Quando ci si crede e poi va a finire male, la rassegnazione è tutto ciò che resta ma è un traguardo complesso da raggiungere. E più si aveva fantasticato, più è complicato.
Poi ho letto gli sfottò, le arrabbiature e le maledizioni lanciate a Zaza e Pellè per i loro errori dal dischetto e ci ho riflettuto su. Ci stanno, eh, non dico di no. Però io il sasso per far partire la lapidazione non riesco gettarlo perché sono convinto che, per entrambi, i sogni ricorrenti che avranno su quei rigori saranno una punizione abbastanza lunga e dolorosa da considerare già pagato il loro debito col fato. Il centravanti del Southampton poteva risparmiarsi quell’orrenda spacconata verso Neuer ma l’aver gettato al vento in quel modo l’occasione migliore della sua vita professionale (e quasi sicuramente non ne avrà una seconda) è un castigo che ritengo sufficiente anche senza aggiungere al carico da novanta i miei strali.
Terza riflessione: Conte. Dopo quanto visto lungo gli Europei, credo che si possa serenamente (continuare a) odiare il futuro mister del Chelsea per partito preso come fanno alcuni. È una posizione che capisco poco ma è legittima. Ma solo nel caso del partito preso. Provare a giustificare la propria antipatia personale per attaccarlo sulle sue capacità, sul suo lavoro o (orrore!) sui risultati (che è come dire: non lo posso vedere perché non ha vinto gli Europei) lo trovo francamente ridicolo. Tra tutti gli espertoni di pallone veri o presunti che popolano i media non ne ho sentito uno dire di credere seriamente nel progetto del tecnico salentino. Non uno. Tutt’al più c’era chi riponeva in Conte tutte le sue speranze cercando di oltrepassare lo scetticismo avuto sulle convocazioni. Ma più che un credere ragionato era un affidamento fideista, ché aver fiducia in questa Nazionale era davvero un’impresa improba, sulla carta. Eppure mi sembra evidente che, tra tutti, sia proprio Conte il singolo che esce meglio da tutta la vicenda, lui è stato il deus ex machina di una squadra a cui nessuno dava due lire ma che, alla resa dei conti, è andata a un rigore dall’eliminare la Germania dopo aver sbattuto fuori la Spagna e pettinato il Belgio con l’aratro.
Poi, va beh, Barzagli. Commentare il suo pianto in favore di telecamera è come camminare sulle uova perché è un attimo lasciarsi andare alla retorica e partire con l’occhio della madre, la carrozzina, la scalinata e compagnia bella. Però il centralone juventino ha detto una gran verità e cioè che nessuno si ricorderà di questi Europei perché rimarrà solo la delusione e, poi, il risultato finale. Tornano in mente i Mondiali del ’98 o Euro2008, di cui nessuno parla più. Bella Italia, a tratti bellissima, ma perdente ai quarti, risultato quasi da normale amministrazione alla fine della fiera. E buona notte a come quel risultato è arrivato e contro chi perché la storia ricorda solo i trionfi, i fallimenti clamorosi o le delusioni più brucianti. Questa spedizione continentale potrebbe tranquillamente entrare nel novero delle ferite dure da rimarginare sennonché non stiamo parlando di una finale o di una semifinale ma solo dei quarti. E tendenzialmente non mi fido di chi giura e spergiura che ne menerà vanto per anni, che non si dimenticherà mai di questo gruppo così orgoglioso e compatto etc, perché ho visto digerire e gettare nell’oblio esperienze precedenti molto simili, dunque non credo che questa Italia rimarrà nel cuore dei tifosi particolarmente a lungo. Certamente di qualche tifoso qua e là sì, ma non penso proprio che penetrerà nell’epidermide della maggioranza perché – appunto – tante altre spedizioni con un simile esito non l’hanno fatto.
Visto che in questo articolo ho già abbondantemente sfondato il livello massimo di autoreferenzialità consentito dalle norme del buongusto vigenti, vado fino in fondo e mi concedo il lusso di trasformare definitivamente il pezzo in una seduta scritta di psicoterapia pubblica e concluderlo con una riflessione generazionale, sperando di non deragliare troppo verso il sentimentale o, peggio, lo stantio. Appartengo a una generazione di tifosi della Nazionale (quella dei nati negli anni 80) che ha sofferto le pene dell’inferno a causa dei maledettissimi rigori. Tutti noi sappiamo che c’è stato un periodo in cui, quando si parlava di Italia, l’equazione era rigori = eliminazione. Fin dalla più tenera età, in qualche caso. Italia ’90, USA ’94, e Francia ’98 sono state le tappe che hanno portato l’allora imberbe appassionato di calcio a detestare immensamente i tiri dagli undici metri quando erano in ballo i destini della Nazionale. Sperare ogni volta che sarebbe andata diversamente per poi assistere in ogni maledetta competizione alla più scontata delle eliminazioni. Pareva una maledizione, francamente. Anche a Euro ’96, pur non arrivando mai ai rigori propriamente detti, è stato un tiro dal dischetto sbagliato da Zola a condannare gli Azzurri. Sono traumi seri, eh, roba che ti segna per tutta la vita, specie se sei un bambino alle prime esperienze di tifo. Euro2000, col cucchiaio di Totti, sembrava una rivincita, la giusta inversione di tendenza (poi abbiamo scoperto che in realtà il destino stava preparando una beffa ancora più atroce) mentre i rigori di Berlino nel 2006 avevano finalmente il sapore dell’esorcismo definitivo. Ovviamente non era così e l’eliminazione con la Spagna a Euro2008 ha riportato le cose al loro status quo. Euro2012 e la vittoria contro l’Inghilterra è invece stata un’altra boccata d’aria prima dell’esaltazione contro la Germania e la disperazione in finale contro la Spagna (anche qui: un altro cioccolatino prima del cianuro?). Spagna che peraltro ha colto l’occasione per ricordare agli italiani che i rigori sono qualcosa di immensamente vicino al patibolo solo un anno dopo, in Confederations Cup. Tutto questo porta il tifoso della Nazionale che ha vissuto intensamente i grandi appuntamenti degli ultimi ventisei anni a una sola conclusione: i rigori sono il male. Se l’Italia è Superman, gli undici metri sono la kryptonite, non c’è scampo. Commentare per l’ennesima volta una rigorata punitiva è semplicemente spingere più a fondo il pugnale metaforico che ho tra le costole fin dagli albori degli anni ’90. E no, non ci si abitua mai. Anzi, fa sempre più male.
Mi fermo qui perché di carne al fuoco ne ho messa tantissima pur non toccando argomenti che lo avrebbero meritato ampiamente (Buffon, Bonucci, Giaccherini, per citarne alcuni) ma l’eliminazione di ieri sera è qualcosa che ho percepito come grande e destabilizzante, come credo tanti altri, e ho cercato di razionalizzare ciò che si poteva razionalizzare, per provare a mettere un po’ d’ordine nel marasma che è il dibattito post gara e, magari, dare qualche spunto sulla vicenda vagamente più originale del tipico ma tutto sommato sterile #atestaalta che già nei minuti successivi al rigore di Hector imperversava più o meno ovunque. Forse ci sono riuscito, forse no ma – per dirla con uno che non ha sofferto a causa dei rigori della Nazionale solo perché allora non c’era – «Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta».