L’Inghilterra non s’ha da fare

L’ennesimo fallimento della nazionale inglese in una grande manifestazione estiva per nazionali porta con sé le domande di sempre.

Su quali siano i difetti di una squadra spesso potenzialmente ottima, eppure incapace di brillare; su cosa delle parti della Football Association si sia sbagliato, su cosa fare in futuro per evitare figure come quella di Nizza.

Il signorile addio di Roy Hodgson alla panchina dei Tre Leoni – era in scadenza, ma se ne è andato senza cercare scuse o attenuanti – non nasconde la sensazione che siano stati anni buttati.

Dal frettoloso esordio all’indomani della bufera Capello, l’ex tecnico della nazionale svizzera ha completamente fallito le grandi manifestazioni internazionali. Tre, per l’esattezza, con un record imbarazzante: passi per Euro 2012 – preparato in piena emergenza e chiuso con una prestazione tutta difensiva nel ko ai rigori con l’Italia – ma Brasile 2014 e Francia 2016 sono stati francamente fallimentari: insieme al tonfo di mercoledì contro gli islandesi, la sfida con le valigie pronte a una Costarica (!) già qualificata ha rappresentato l’emblema del fallimento, descrivendo meglio di mille parole l’anonimato di un intero ciclo.

Roy, signore educato e tutto d’un pezzo ma tutto tranne che un fine tattico, s’è messo in imbarazzo da solo: empirici, improvvisati, stravaganti nella loro incoerenza e inconsistenza i suoi esperimenti, disastrosi i risultati.

Perché ti può andar bene nelle qualificazioni – dove il livello è bassissimo e te la cavi improvvisando – ma poi in estate la paghi e anche cara.

Su tutto, la Coppa del Mondo in Brasile, giocata con un improbabile 4-2-3-1, con un Gerrard senza gambe (e cuore, post scivolone e titolo perso sul più bello) ed Henderson a sfidare l’intero centrocampo azzurro, centrocampo senza filtro e consistenza, oltre che regia e visione di gioco.

O quest’Europeo, con la banalità di mettere tutte insieme tutte le punte che hai, quanto sei disperato e non ti viene in mente nient’altro. Aggiungete cambi senza una logica, ostinazione (incredibile) su certi calciatori, poca capacità di motivare e spronare (i video di Euro 1996: il confronto fatelo voi), il secondo tempo dello Stade de Nice.

Nella scelta di Hodgson – che pure con la Svizzera aveva accumulato chilometraggio internazionale (ma vogliamo paragonare la pressione di guidare l’Inghilterra?), senza parlare del Fulham portato in finale di Europa League – c’era tutto il pressapochismo di una federazione nel pallone, nel panico. Disposta a tutto pur di scegliere un inglese.

Uno qualsiasi, uno: come se dopo Eriksson e Capello nessuno straniero andasse bene, come se non ce ne fossero altri. Ancora meno comprensibile la sua conferma dopo l’uscita prematura in Brasile: ok il girone di ferro, ma nell’anno del disastro azzurro l’Inghilterra poteva e doveva provare a passare.

Sarebbe riduttivo, naturalmente, imputare al solo commissario tecnico l’uscita agli ottavi di Euro 2016. Né voglio nascondere che l’Inghilterra non vince dal 1966 e accumula da anni flop su flop. Fallimenti pesanti, che l’hanno resa un po’ lo zimbello di questi tornei: grande solo di nome ma non di fatto, non per l’albo d’oro. Incapace, a differenza della Spagna, di rivitalizzarsi e costruirsi un ciclo vincente. E neanche di convertire a livello di football internazionale lo stato di salute – economico ma non solo – della sua Premier League.

Ma sarebbe ugualmente sbagliato rassegnarsi a fallire, non provarci mai più.

Situazioni critiche richiedono scelte coraggiose: la FA scelga un ct e lo scelga bene. Straniero, e abituato al calcio delle nazionali, se di autoctoni buoni non ce ne sono (e non ce ne sono).

Uno scelto non in base al passaporto, ma poiché corrispondente all’identikit ideale: magari, sarebbe la volta buona.

Come hanno fatto quelli del rugby, freschi di successo nel Sei Nazioni e nei tour di fine campionato (anche) grazie alla scelta di un tecnico australiano.

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Matteo Portoghese