Home » La solitudine del numero 1(0)

CP DC Press / Shutterstock.com

Sono quasi le undici di sera di domenica 26 giugno. Siamo a Est Rutherford, nel New Jersey, a qualche chilometro da New York. Normalmente al MetLife Stadium ci giocano i Giants e i Jets, la palla è ovale e due anni fa ci si è giocato un Super Bowl. ‘Sta volta è diverso. Tutto un altro sport.

Si sta concludendo la Copa América Centenario e la finale è Argentina-Cile. I 90 minuti non sono bastati a scegliere un vincitore del revival del 2015 e arrivano, inesorabili, i calci di rigore. Inizia la Roja. Anzi no, perché Bravo para subito a Vidal. Ipnotizzato. Sotto con Messi. Alto, altissimo. Il capitano dell’Albiceleste spara un fuori campo degno di David Ortiz e qualche spettro viene a bussare alla porta del Tata Martino, uno che di pezzi d’argento se ne intende.

Come lui, rigorosamente d’azzurro e bianco vestito, Leo. Ha portato la Selección all’atto conclusivo della manifestazione per la seconda volta di fila in meno di dodici mesi ma ha appena sbagliato il rigore più e meno importanti di tutti, il primo. La lotteria prosegue e il sorteggiato a finire sul patibolo poco dopo è Lucas Biglia. Francisco Silva infila Romero sugli undici metri decisivi e il Cile è nuovamente campione d’America, come l’anno prima. Dramma.

L’Argentina ha perso. Qual è la novità? Perde sempre. Sono ventitré anni che non mette pane sotto i denti. Stare a stecchetto così a lungo l’ha aiutata a sfornare, e formare, giocatori che tutto il mondo le invidia ma non basta. Come Messi, che non starò qui a idolatrare più di quanto non faccia già quotidianamente chiunque sia anche solo interessato allo sport. Allo sport eh, non al calcio.

I cinque Palloni d’oro che ha in casa, probabilmente a Barcellona, parlano al suo posto. Se lo cercate rispondono loro a eventuali interviste, commenti, attacchi mediatici e altro. In realtà, sono sicuro della loro incredulità alle parole rilasciate dalla Pulga al termine della partita contro il Cile con le quali annunciava il suo ritiro dalla Nazionale dopo quattro finali perse (il Mondiale del 2014 con la Germania e le tre Cope América del 2007, 2015 e 2016).

Me voy porque pierdo. Tutto qui. Volevo vincere ma non ci sono riuscito e quindi, a 29 anni, è meglio lasciare il posto a qualcun altro. Fascia e diez compresi. 

Un comportamento quanto meno infantile per come maturato. A caldo, nei corridoi del MetLife Stadium con compagni e addetti ai lavori che gli sfilano accanto per salire sul pullman. Gli parte pure un sorrisetto, spero per lui nervoso, mentre consegna al microfono di un giornalista il suo addio all’Albiceleste. Rivedo il filmato. No, no, questo ridacchia proprio mentre dice che per lui è finita. Ringrazio di non essere un tifoso argentino e chiudo.

Non si può immaginare quel concentrato di emozioni che sei costretto a provare dopo un filotto di delusioni così dolorose seppur sportive. Per Messi essere Messi non è facile nemmeno quando dorme. Sempre con quella maledetta scimmia sulle spalle che ormai ci siamo stancati di definire paragone. Leo è solo un fenomeno. Tutto qui. Uno che non ha mai vinto da solo. Da tanta classe derivano delle responsabilità, non per forza dei dogmi. Il “terrone”, concedetemi il termine, era una cosa diversa capitata in altri tempi.

Questo diez non arringherà mai i compagni prima di una partita. Non si caricherà mai Higuaín e compagnia bella sulle spalle aiutandoli a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Non parlerà mai a muso duro con l’arbitro e non deciderà al posto di altri. Messi fa il suo sul campo. Che sfortuna sua, forse, è già troppo per stravincere. È sempre stato troppo più bravo di tutti per aver bisogno d’altro. Niente garra.

Voleva tremendamente vincere. Lo voleva per lui e per la sua gente. Ha deciso che non ci proverà più. Non critichiamolo, Messi è solo un fuoriclasse.