Francia 2016 – Highlights: la tuta di Gabor
Ieri sera s’è consumato il dramma sportivo che ha visto la coraggiosa Ungheria capitolare mestamente sotto il talento dei broncos selvaggi del Belgio, capaci di punire oltremodo la formazione magiara e rifilarle un 4-0 impietoso nonostante Wilmots continui a non capirci una beneamata. Onore e lodi al talento belga, certo, ma anche all’ormai mitologico tutone svolazzante di Gabor Király, il portiere ungherese noto ormai da decenni per la sua scelta di look tendente al pensionato ruspante.
La tragedia nella tragedia, infatti, è che non vedremo più l’estremo difensore magiaro difendere i suoi pali con stile ed efficacia lungo questi Europei e i suoi pantaloni larghi e felpati ci mancano già immensamente. Sarebbe fin troppo facile abbandonarsi alla retorica sull’anti-personaggio in un mondo di calciatori sempre più metrosessualmente ossessionati dall’apparenza (talvolta anche a discapito della sostanza) ma la tuta di Király era qualcosa in più di una semplice predilezione per la comodità estrema e ostinata: era un simbolo, il simbolo dello stagionato portiere magiaro – tipo il pipistrello nero sul petto di Batman, per fare un esempio immediato.
Un vessillo romanticamente intrigante (e coraggiosamente bruttarello) del menefreghismo più assoluto per quello che sono mode e convenzioni, talmente ardito da fare il giro completo e diventare vezzo: del resto, come si fa a scegliere quei calzonacci parzialmente alla zuava al posto di un paio di agili braghette corte quando si toccano i trenta gradi? Non c’è più nessuna scusa di praticità, è evidente, è un discorso di firma.
Quante volte ci è peraltro capitato di parlare di portieri con amici appassionati di calcio europeo e di citare “il portiere con la tutona per dimagrire”? Niente nome, nessuna nazionalità, addirittura nessun accenno alla squadra di club: solo i pantaloni larghi e sformati rinvoltolati dentro i calzettoni. Király lo sa benissimo, ormai, ci marcia, ci gioca su e gioca anche il pubblico, irresistibilmente attratto dalla foggia dei calzoni e divertito all’idea che il portierone magiaro ne abbia fatto un feticcio da indossare a prescindere dalle condizioni atmosferiche.
E come il buon Gabor mostra ancora un’esplosività e un atletismo virtualmente insospettabili in un fresco quarantenne qual è, allo stesso modo i pantalonacci svolazzanti non turbano affatto il quadro visivo mentre lo si ammira zampettare a destra e sinistra per respingere palloni velenosi, anzi. La tuta si fonde armoniosamente attorno alla figura che la indossa e ne viene nobilitata per qualche strano e perverso motivo, assume una dignità che a bocce ferme non le si attribuirebbe nemmeno sotto LSD e magnifica Király stesso, che appare più maestoso di quello che è anche grazie ai pantaloni e non nonostante.
Tutto ciò non si può che etichettare alla voce “misteri del calcio” perché non capita spesso che un elemento naturalmente portato a incanalare il pubblico ludibrio diventi firma e alleato di chi ne fa vanto e sfoggio. La tutaccia brutta che noi nascondiamo in fondo al cassetto sotto il letto e che ci vergogniamo di indossare persino come pigiama assurge a essere uno dei simboli di tutto Euro2016 nonché allegoria realizzata della valorizzazione delle cose brutte che, a volte, diventano belle pur rimanendo essenzialmente brutte.
Solo un pensiero ci ossessiona fin dal primo momento che abbiamo visto l’Ungheria in campo e, di conseguenza, i calzoni svolazzanti: cosa ne penserà mai Cristiano Ronaldo?
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