Con un minuto e quarantacinque secondi sul cronometro di gara-7, con i Golden State Warriors e i Cleveland Cavaliers appaiati a quota 89 punti, Andre Iguodala si alza per il lay-up del +2. Dietro di lui incombe il numero 23 dei Cavs, che ha fagocitato trenta metri di parquet ed è già in aria per eseguire la stoppata da dietro che ha perfezionato proprio lui: il chase-down. LeBron James tocca il pallone, lo inchioda al tabellone e lo adagia tra le mani di un compagno. Cleveland può crederci davvero: cinquanta secondi dopo Kyrie Irving mette la tripla della vittoria e qualsiasi altro attacco dei Warriors viene respinto mentre il cronometro va a zero.
Quella persona che ha stoppato Iguodala non è un essere umano come noi. È più forte di noi, è più prestante di noi, è più veloce di noi. In queste finali ha guidato tutte le categorie statistiche (punti, rimbalzi, rubate, stoppate, assistenze); i suoi hanno vinto due partite in trasferta, dove Golden State aveva perso solo quattro volte in stagione regolare e hanno recuperato da 1-3, cosa mai successa nella storia delle finali NBA. Ora ha tre titoli, tre trofei di MVP delle Finals, quattro di MVP della stagione regolare. Sul fatto che sia il miglior cestista della Terra esistono pochi dubbi, ma la vera domanda è: tutto qui?
In questi giorni è venuto a mancare Muhammad Ali. Se vi chiedessero di descriverlo da dove partireste? Dal fatto che era un pugile?
No, decisamente no. Alì è una leggenda dello sport, ma di lui non ricordiamo la tecnica, la forza, la velocità. Ci ricordiamo la sua battaglia per i diritti umani, i viaggi in Africa, il suo ruolo nella lotta alla segregazione razziale statunitense. Il corpo di Ali è morto settimana scorsa, ma la memoria del lottatore da Louisville trascende lo sport ed è indimenticabile nella storia dell’Uomo. Cosa è rimasto delle accuse su di lui? Delle polemiche sul fatto che si rifiutò di andare in Vietnam? Della sua vita amorosa a dir poco turbolenta? Poco o niente, perché abbiamo scelto di ricordarci delle cose grandi che ha fatto, non dei polveroni sollevati da altri o dei suoi difetti.
In un’intervista di qualche giorno fa trasmessa da Sky, Víctor Hugo Morales, radiocronista, narra alcuni episodi della vita di Diego Armando Maradona. Di lui non parla dei gesti tecnici, ma ricorda vivamente la personalità. Nelle sue parole: “La grandezza di Maradona è stata nell’unire le varie classi sociali argentine. Al suo matrimonio c’erano capi di stato e leader politici, ma anche la gente de La Boca, del barrio. Fu una grande festa.”
Le punizioni con la maglia del Napoli, quel gol all’Inghilterra dopo una discesa ubriacante, gli scudetti, le coppe. Tutto svanirà, a braccetto con le accuse di doping, l’uso di cocaina, l’evasione fiscale e le altre malefatte del numero 10.
Il volto sui muri di Buenos Aires, la maglia dell’Argentina, la venerazione di due popoli in perenne difficoltà politica e sociale per il loro salvatore, colui che riuscì a riscattarli: no, queste cose non svaniranno.
LeBron Raymone James, nato a Akron, Ohio, negli ultimi giorni del 1984, ci obbliga a una scelta simile.
Ricchissimo, ha trasformato la sua carriera in un’ascesa economica inedita per uno sportivo: primo mattatore del mondo social, riuscirà a guadagnare un miliardo di dollari solamente dal contratto con la Nike, suo sponsor tecnico. Un miliardo.
Quando due anni fa tornò a giocare ai Cavaliers, il mondo della pubblicità strumentalizzò quella sua scelta, lo slogan “I’m coming home” è diventato una macchina da soldi che si alimenta da sola, fatta di impressions su Twitter e condivisioni su Facebook.
Ma le sue parole sono state chiare:
“Voglio portare un titolo a Cleveland. Voglio che i ragazzi che nascono qui non lascino il Nord-Est dell’Ohio, che vogliano tornare a casa una volta laureati”
Le condizioni in cui versa quella parte di Midwest americano non sono ideali: il tasso di disoccupazione a Cleveland è ben più alto della media nazionale, mentre in altre parti anche dello stesso Ohio i dati sono più rosei.
Per LeBron esiste un legame tra questo titolo NBA e il destino della terra in cui è nato: dimostrare che anche lì è possibile vincere, nello sport e nella vita. Lui ora la sua parte l’ha fatta: Cleveland esulta dopo il 1948, anno in cui gli Indians di baseball vinsero le World Series. Ha utilizzato lo sport per rivalutare la sua terra, ha sfruttato il fatto di essere l’uomo più veloce, più forte, più prestante della Terra per un obiettivo più grande.
È come se, alle 4.50 della mattina italiana del 20 giugno 2016, mentre stoppava il povero Iguodala, egli ci avesse passato la palla. Noi ora dobbiamo fare una scelta simile a quelle fatte con Ali e Maradona.
Cosa racconteremo ai nostri figli? Che costui è un pallone gonfiato, troppo ricco, con macchine, gioielli, case principesche, che ha usato Internet e i suoi supporter per diventare un miliardario?
Oppure diremo loro che LeBron James era un atleta che voleva fare qualcosa di immenso per la sua terra, che ha usato i suoi talenti per guidare il riscatto di un’intera regione, che ci ha insegnato il significato di concetti quali il ritorno a casa, il combattere per le generazioni future, che ci ha mostrato che lo sport fine a sé stesso è pratica per gente normale ma che può diventare un mezzo per comunicare con l’umanità nelle mani dei veri fenomeni?
A voi la scelta. Entrambe le versioni sono vere, come era vero che Ali disertò e tradì e che Maradona evase il fisco.
Sinceramente, a chi vi scrive l’immagine di James che piange stringendo i trofei vinti nella notte di Oakland lo porta a credere in lui, a credere che questa persona voglia comunicarci qualcosa di molto diverso dalla banale vittoria di un trofeo.
La ricerca spasmodica di un significato al di là del basket, al di là della vittoria e della sconfitta ci lascia con l’ultima, più importante domanda di una trattazione che, chiediamo scusa, ne è provocatoriamente farcita: non è forse per questo che amiamo lo sport?