È quasi fastidioso, puntualmente, dover tirar fuori dal sacchetto dell’usato le stesse osservazioni da delirio cronico che la Formula 1 ciclicamente obbliga a ripescare: il GP d’Europa a Baku è stato un altro capitolo scritto dalla penna logora di Bernie Ecclestone, una trama banale e scontata, per di più con incongruenze enormi che hanno reso il lettore alquanto nervoso.
La gara in un paese che fino a 4 giorni fa era sconosciuto ai più, ritaglio sommerso su un mappamondo sbiadito, è stata l’ennesima lezione economica geniale, ma d’immagine devastante, un’altra picconata alla spettacolarità di uno sport che ormai vive all’ombra dell’incasso percepito, staccando assegni negli angoli più remoti del globo.
Ancora una volta la noia e gli sbadigli hanno vinto più delle Mercedes che dominano da ormai 3 anni, i muretti e i sanpietrini rimossi per regalare una cornice tanto spettacolare quanto effimera non pagano e il remake di Valencia è servito: han cambiato località e panorama, ma il soggetto in primo piano è sempre lo stesso, un soggetto destinato a sparire come neve al sole entro qualche anno, lasciando quache goccia di un flebile ricordo, proprio come il circuito Valenciano. Insomma, non c’è più il ponte, ma il castello, il mare è rimasto anche se un po’ più sullo sfondo, la noia di vedere le monoposto su una monorotaia, quella è sempre la stessa.
Come se non bastasse, l’apice del controsenso e tuttavia anche l’unica sfumatura a tinte accese di una domenica da abbiocco facile sono state le discussioni sui manettini del volante tra Kimi, Lewis e i rispettivi ingegneri di pista, una sorta di indovina chi o, in questo caso, cosa, con risposte monosillabiche per non infrangere il regolamento. Qualcosa insomma di paradossale, un quiz show a 370 km/h, ennesimo cabaret di uno sport che fa sorridere per non far piangere, soprattutto chi ha vissuto l’epoca di una Formula 1 dove i muretti erano solo a Montecarlo e le comunicazioni solo sulla lavagnetta dei distacchi. Sic transit gloria mundi.