Editoriali

La seconda prova

In tempi di fine scuola, e di esami, arriva l’Europeo di Francia. Non invidio i maturandi chiamati a dividersi tra le sudate carte e il teleschermo; quando lavori per cinque anni, e poi sei chiamato a confermare il tuo livello, niente avviene per caso.

Ed è quello che anche la Nazionale di Conte è chiamata a fare: confermare il proprio livello. Una rondine non fa primavera, quindi il 2-0 col Belgio è pura statistica: l’interpretazione, il valore e il significato, devono venire da un’idea, un impianto di gioco che si modella (o si impone) nel tempo; e il viennale ciclo-Conte ha l’opportunità di salire di tono proprio mentre va a chiudersi.

Occorre quindi una conferma. E in epoche recenti quante volte l’Italia ha vinto la seconda partita di un mondiale o europeo? Andando a ritroso: Brasile 2014, 0-1 con la Costa Rica; Polonia-Ucraina 2012, 1-1 con la Croazia; Sudafrica 2010, 1-1 con la Nuova Zelanda; SvizzerAustria 2008, 1-1 contro la Romania; Germania 2006, 1-1 contro gli Stati Uniti (grazie a un epico autogol di Zaccardo); Portogallo 2004, 1-1 con la Svezia (e seguente biscottone); Corea-Giappone 2002, 1-2 contro la Croazia; BelgiOlanda 2000, 2-0 col Belgio.

Deo gratias: sedici anni senza vincere la seconda partita (quella in cui i giochi si fanno duri). A guardare l’elenco, poi, figurano avversari non sempre irresistibili. Stavolta l’occasione è ghiotta. Sul cosiddetto biscotto, la penso come sempre: bisogna mettersi in condizione di non doversi lamentare del destino, dell’arbitro o di qualsiasi altra cosa fuori dal proprio controllo. Ma resta comunque vero che quel gol di dodici anni fa, in acrobazia di tacco spalle alla porta, un po’ di vendetta la merita comunque: per l’insolenza del gesto – cioè: perché la perfezione fa male, diciamoci la verità.

E qui viene in gioco l’identità di questa squadra. Anche dopo lunedì, ho sentito dire e ripetere che si tratta di una squadra operaia, ma è un’analisi che manca il punto. Non è (ancora) un problema di nomi, ma di identità: mancano gli uomini di classe, mancano i campioni, ma è solo una constatazione. Il punto è se questa sia una squadra di cuore operaio. Se, cioè, gli onesti mestieranti azzurri siano davvero consci di se stessi, se non si lasceranno blandire dai complimenti. Meritati, peraltro: i gol di Giaccherini e Pellè nascono al termine di gesti tecnici pregevoli.

La prima nazionale di Prandelli contava ancora sulla classe di Pirlo e lanciò il Balotelli migliore (mai più visto), riuscendo a esprimere buon calcio ma soprattutto una solidità superiore alla somma dei valori dei singoli; l’opposto due anni dopo. O prendiamo l’esempio più vincente: i ragazzi di Lippi nel 2006, con Calciopoli a fare da sfondo e a costringere tutti a una serietà diversa. Mai una parola fuoriposto, ciascuno che porta il suo mattoncino: tanta classe, ma anche la solidità di chi pensa di non essere favorito. Operai di alta manovalanza, diciamo.

Quindi siamo alla prova: quanto è unito il gruppo? Quanto è umile? Quanto sarà capace di non pensare che è venerdì 17, e quanto ancora saprà evitare di guardare a calcoli o scaramanzie (è venerdì 17, dopotutto)? La maturità si vede anche da qui.

In realtà, poi, i maturandi di oggi un po’ li invidio comunque: non avranno un lavoro, non avranno una pensione, esattamente come quelli come me; ma, almeno, loro hanno 18 anni e basta. Tra non molto saranno chiamati alla maturità, come già oggi la Nazionale; e poi a confermarsi o rilanciarsi (buon’avVentura). Resta solo una cosa da fare: crederci.

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Pietro Luigi Borgia