Vincenzo Nibali, lo squalo “normale”
Con gli occhi sbarrati di stupore e quella sorta di fiatone innescato da chissà quale principio empatico, ci chiediamo: cosa dovrà fare, ancora, Vincenzo Nibali da Messina per assurgere indiscutibilmente a quello speciale iperuranio che è l’Olimpo dello sport? Strana la vita di certi atleti, a suo modo ingiusta, crudele: perché lo Squalo è davvero tra i migliori talenti che la nostra pedivella ricordi, diamante puro e umanissimo, forte e fallibile al contempo. Eppure, si mormora il nome del Pirata e i cuori s’accendono, gli occhi si bagnano, le orecchie si riempiono della voce esaltata del buon De Zan (quello giusto), in quel 4 giugno (Cavalese-Plan di Montecampione) che chi vide in diretta non potrà mai dimenticare, sorvolando sui dettagli ambigui, sconvenienti d’una storia in cui nessuno si salverebbe. Nessuno.
Questione d’appeal, dicono gli esperti di marketing. Di narrazione, quelli di politica (all’amatriciana). Ci son facce che “bucano” schermi e cuori, e ci son facce da “normali”, poco importa se coloro che le indossano, a ben vedere, tanto “normali” non sono. Nibali, le stimmate da predestinato le porta con sé sin dagli esordi, con quel soprannome ittico che è sigillo perfetto per fisicità e stile: un siculo tagliente, perfezionato in Toscana, terra di grandi tradizioni ciclistiche, in grado di formare, plasmare generazioni di campioni per quel mestiere assurdo e faticosissimo che è la bicicletta.
E non facciano boccucce i pallonari che frequentano questi schermi consacrati al cuoio dal nome stesso della testata: la generale sfiducia riservata alle due ruote per causa delle illecite alterazioni prestazionali è accusa tra le più ridicole e infamanti che si possano rivolgere a questa disciplina, per il basilare principio secondo il quale i ladri si prendono solo se vengono cercati; e l’assenza di colpevoli (o quasi) in altri ambiti è tutt’altro che una prova a favore per questi. Risparmiamo esempi e illazioni, perché “non ora non qui” si deve, per l’ennesima volta, sminuire quella che è stata, in assoluto, una grandissima impresa.
Vincenzo Nibali arrivava al Giro 2016, il numero novantanove, coi favori del pronostico, una squadra di lusso al proprio servizio, tutti gli occhi puntati sulle quelle gambe tirate quanto magre. “Non è (più) quello di qualche anno fa”, commenta(va)no i maldicenti, gli stessi che, dopo un Tour nuovamente tricolore a 16 anni dal precedente, insinuavano: “Eh, ma son caduti tutti”, riferendosi alle allora defezioni di Chris Froome e Alberto Contador. Come se cadere non facesse parte del gioco e la storia ciclistica non fosse costellata di titoli sfumati per una banalissima minzione, una foratura nel momento peggiore, più maledetto. Molti, troppi i dettagli che devono collimare, per portarsi a casa una grande corsa a tappe e, da questo punto di vista, non riusciamo a capire cosa debba far di più un ragazzo che è tra i sei ciclisti d’ogni tempo a vantare in bacheca la tripla corona (Vuelta 2010, Giro 2013 e 2016, Tour 2014) e, come se non bastasse, grazie agli altri quattro piazzamenti nelle suddette competizioni (terzo e secondo al Giro, nel 2010 e 2011; terzo al Tour 2012; secondo alla Vuelta 2013) è il secondo, dopo un certo Bernard Hinault, a metter piede sui tre podi almeno due volte.
Non è andata come tutti prevedevano, compreso chi scrive. Questo Giro non è stata la comoda passerella a ulteriore sigillo d’una carriera da campionissimo e che, a nostro avviso, può regalare ancora molto agli appassionati. A Roccaraso, lo Squalo tenta il colpo di pinna, senza successo, capendo che non è aria. Qualcosa non va. Che strano, e meraviglioso, sport che è il ciclismo: non regala certezze, mai, a nessuno. Sorgono le inaspettate stelle di Steven Kruijswijk ed Esteban Chaves, quella di Vincenzo traccheggia a filo d’orizzonte. Scorrono le tappe e la crisi sembra irreversibile. Tra Alpe di Siusi e Andalo, sono ormai in molti, troppi, a intonare il Requiem per il predatore marino: sciocchi, e includete pure noi tra questi, ché mai, mai, avremmo potuto immaginare quello che ci avrebbero riservato le giornate successive. Un’altra caduta, diranno i maligni in poltrona, e un’altra volta li rimandiamo a scorrere davvero la storia delle ruote a raggi: tra Risoul e Sant’Anna di Vinadio, il Re ripristina l’ordine e si riprende la corona. Applausi, applausi e ancora applausi.
E grazie, per le emozioni. Grazie per la misura, per la dimensione umana, troppo umana, d’uno sportivo che poco o nulla ha fatto discutere di sé, se non per le scelte in campo (l’unico neo, a nostro parere, è quella squadra kazaka, ma soprassediamo), grazie per non essere personaggio, brand e, ce lo auguriamo, per risparmiarci, in futuro, comparsate a Ballando sotto le stelle o isole di (ex) famosi.
Alla fine, la grandezza di Vincenzo Nibali sta pure nel suo essere poco o nulla uomo da copertina, così lontano da modelli che solo una certa superficialità potrebbe fargli invidiare.
Squalo, non ti chiediamo niente, non pretendiamo né Parigi né Rio, ma solo una cosa: continua così e facci sognare. Ancora.