L’effetto Di Matteo
Alzi la mano chi pensa che Zinédine Zidane sia, già adesso, un grande allenatore (non contano i tifosi del Real ancora ubriachi da ieri sera).
La alzerebbero in pochi, suppongo, visto che è ancora prestissimo per capire se l’ex trequartista francese è destinato a una carriera di meraviglie in panchina: per ora si può senz’altro dire che Zidane ha confermato una volta di più – non che ce ne fosse particolare bisogno – di essere un uomo intelligente e dotato di enorme buon senso. In un certo senso, non serviva altro a questo Real: dopo tutte le tensioni della brevissima era Benítez, un “amico dei giocatori” (nonché un “normalizzatore tattico”) era quanto più serviva al gruppo per recuperare le giuste energie mentali e rilanciare la propria stagione. Oggi si sprecheranno gli aggettivi su Zizou e certamente “predestinato” salterà fuori: per ora proviamo a non curarci di queste esagerazioni ma guardiamo e passiamo (magari annotandoci i nomi di chi dipinge l’ex juventino come un sicuro genio dell’allenamento, così, tanto per tornare a cercarli quando le cose andranno meno bene al francese e divertirci a vederli scendere dal carro in fretta e furia).
Ma, di preciso, cos’ha fatto Zidane al Real Madrid per risollevarlo dalla mediocrità in cui era scivolato mentre era in sella il pacioso Rafa? Niente di straordinariamente innovativo ma, allo stesso tempo, qualcosa di molto logico: ha sostanzialmente reinserito Casemiro tra i titolari più o meno inamovibili (mossa che, a onor del vero, anche Benítez aveva provato a fare salvo poi rimuoverlo per via – pare – di un mezzo diktat presidenziale) donando alla squadra più equilibrio e rinunciando al 4-2-3-1 iperoffensivo che prevedeva i soli Kroos e Modrić in mezzo al campo. Intuizione che, peraltro, Zizou non ha avuto subito ma solo verso marzo.
Dunque, com’era stato anni fa per Di Matteo al Chelsea, Zidane ha sostanzialmente stabilizzato la situazione che è stato chiamato a gestire, rimettendo ciascun giocatore nella posizione e nel ruolo in cui si poteva esprimere al meglio e senza stressare il gruppo con un copione tattico particolarmente intricato o elaborato. Fine. Come si diceva all’inizio: pochi fronzoli e tanta sostanza, figlia di una bella dose di senso pratico.
I risultati hanno premiato alla grande il francese che, dal suo insediamento sulla panchina blanca, ha perso solamente due partite, riuscendo a centrare il bersaglio grossissimo al suo primo tentativo. Come sempre in questi casi (e in generale nel calcio), Zidane ha anche usufruito di quel pizzico di buona sorte che aiuta a trasformare un buon lavoro in uno vincente ma gli va dato il merito di aver saputo ricompattare e rigenerare soprattutto mentalmente una rosa che era già ottima alla base ma che non riusciva a esprimersi nel modo corretto, con la giusta naturalezza e la giusta voglia.
Ora per Zizou viene il difficile: gli toccherà confermarsi anche il prossimo anno su una delle panchine più complicate del mondo senza poter sapere fino in fondo cosa potrebbe capitargli di vedere durante il calciomercato (cfr. Carlo Ancelotti che, dopo aver vinto la Champions del 2014, s’è ritrovato quasi dal giorno alla notte senza Di María e Xabi Alonso ma con un Kroos e un James Rodríguez in più). Disputare un’altra stagione vincente, in fondo, servirebbe quasi più a lui che alle Merengues perché il Real rimane il Real, a prescindere da chi ne sia l’allenatore, mentre invece Zidane deve evitare a tutti i costi di diventare un altro esempio di “effetto Di Matteo” e conquistare le sue libertà e indipendenza professionali senza rimanere incatenato per sempre a un exploit meraviglioso e vincente ma breve come la vita di una farfalla.