L’ampio anticipo dell’ufficialità del passaggio di Josep Guardiola al Manchester City ci ha già abituati all’idea che alleni in Inghilterra. Se è vero che l’addio al Bayern è stato un lungo addio, la Bundesliga e il DFB-Pokal portati a casa nella doppia e lunga sfida al Borussia Dortmund ha congedato l’ex tecnico del Barcellona con la conferma di una supremazia domestica raramente messa in discussione.
E visto che siamo tutti (quasi) allenatori, come il nostro Igor Vazzaz ha raccontato, una certa voce popolare vuole il mestiere di allenatore del Barcellona o del Bayern essere il più semplice del mondo.
Alleno anche io, con quella rosa lì vincerebbe pure mio nonno e così via. Che magari è anche vero (ma poi com’è che le vittorie continentali di Carlo Ancelotti sono merito della guida tecnica e non dei portafogli presidenziali?), ma probabilmente non fino a quel punto: ogni partita in ogni campionato rappresenta una sfida tattica (se vogliamo anche culturale) e in un’epoca di ubiqui comparatisti del pallone – paragonare i campionati è diventato il nostro nuovo sport nazionale, altro che fare il ct! – è strano che queste differenze vengano dimenticate.
Non era scontato né facile, per esempio, il passaggio dalla Liga al campionato tedesco. A livello ambientale, innanzi tutto, ma non solo: in Germania si gioca un altro tipo di calcio e la sfida più grande del guardiolismo era proprio quella di adattarcisi. O di prendere le misure alla Bundesliga e cambiare in conseguenza. Sfida doppia e doppiamente riuscita, secondo me: l’albo d’oro ma non solo lo dimostra, e non è detto che l’impronta lasciata da Pep si limiti a ciò.
Certo, come budget e struttura societaria c’è sempre stato un abisso tra il Bayern e le altre, i cui risultati europei anzi hanno reso onore al livello del campionato forse anche più delle semifinali collezionate dai bavaresi. Quattro club agli ottavi di finale due anni fa, per esempio, nonostante proprietà tutte autoctone e meno liquidità rispetto agli omologhi inglesi o italiani: da qui la considerazione – mia e spero non solo mia – che forse Guardiola ha giocato meno in ciabatte di quanto si dica, e che Borussia Dortmund, Schalke 04, Bayer Leverkuen e compagnia siano ossi duri traditi, nel nostro immaginario collettivo, dal poco appeal commerciale dei loro giocatori più forti, oltre che dalla durezza di una lingua meno universale rispetto all’inglese lo spagnolo.
Ecco: se Pep ha guidato dal 2013 a oggi un gigante meno solo di quanto tendiamo a dire, arriva adesso la sfida più dura. Non perché improvvisamente passi dalla Juventus al Carpi – il Manchester City non ha problemi di fondi, di sicuro – ma per ciò che vedrà guardandosi attorno. Se restano dubbi sull’effettiva competitività continentale delle squadre che rappresentano il top della Premier League, l’equilibrio interno è quanto di meglio l’Europa abbia da offrire.
Per lo spettatore neutrale soprattutto: oltremanica non s’è assistito, questi anni, al dominio di Bayern, Juventus e Paris Saint-Germain, né c’è la certezza – come invece in Spagna – di quali saranno le prime tre della classe, a prescindere dall’ordine. Non solo per il miracolo Leicester, ma anche per la crisi generazionale e di idee di grandi storiche come il Manchester United, l’imprevedibile disastro di un Chelsea lontano parente dello squadrone che fu, il mancato salto di qualità dell’Arsenal. Per non parlare del Liverpool, che il suo nome nell’albo d’oro non lo scrive dal 1990. E anche se la forbice tra i ricchi e poveri è più ampia in Inghilterra che altrove, non c’è uno più ricco, uno meglio strutturato e in sostanza più forte, tra le top 6: Guardiola arriva in questo contesto qui e a ciò dovrà adattare la sua visione di gioco. Di calcio. La sua filosofia.
Le tante mani straniere (spesso italiane, visti gli ingaggi di Conte e Mazzarri, oltre alle conferme di Ranieri e Guidolin) cui sono affidate le panchine delle squadre inglesi ci chiedono inoltre di aggiornare il vecchio luogo comune che vede la Premier League impressionante sul piano dell’intensità, ma piatta e banalissima su quello tattico.
C’è senz’altro del vero – lo vediamo soprattutto quando, ogni due estati, i giocatori dei Tre Leoni faticano contro difese chiuse e organizzate, in partite a basso ritmo – ma è superficiale pensare che i Wenger, i van Gaal (o i Mourinho), i Koeman e gli altri non ci abbiano messo del loro. Che ogni allenatore, arrivando in Inghilterra, non porti con sé il suo bagaglio d’esperienza, non plasmi la squadra a sua immagine e somiglianza e non aumenti la complessità del campionato: lo stesso pazzo – nel bene e nel male – Liverpool di Klopp è già la fotocopia del suo allenatore e la cosa non può che continuare.
Proprio questa, oltre a un pubblico che sembra gradire poco il tiqui-taca, è la sfida che attende Guardiola: entrare, metterci del suo e vincere.
E non vincere e basta, ma vincere con la sua filosofia; svecchiare e aggiornare un Manchester City che guarda al doppio obiettivo di Premier e Champions League, ma restando sé stesso: se sarà una Premier tedesca, portoghese, alsaziana, italiana, argentina o catalana lo vedremo.
Di certo verrà male, tra un anno, parlare di campionato piatto tatticamente.
Con tante mani e filosofie diverse a sfidarsi tra loro.