Il bello del calcio è anche il suo lato, a nostro avviso, più debole: ne possono parlare tutti e, dunque, tutti ne parlano (persino noi). Principio altamente democratico, non v’è dubbio, ma che rischia di liquefare qualsiasi considerazione in un magma indistinto di opinioni, dando per scontato che esse debbano essere, in quanto tali, equipollenti. Si può, dunque, dire, scrivere e leggere tutto e il suo contrario, dando fondo a qualsivoglia pregiudizio o impressione senza che subentri di necessità il filtro di un’analisi più meditata, a separare il metaforico grano dal loglio o, più prosaicamente, il plausibile dalla vaccata.
Parliamo di allenatori, di calcio in particolare, quella razza di (sedicenti?) esperti al cui posto vorrebbero (e potrebbero) sedere tutti: dal barista al salumiere, dal disoccupato all’esperto di comunicazione, senza trascurare il giornalista, più o meno affermato, più o meno affamato. Tutti animati da una solida e tetragona convinzione: “Al posto suo, io farei meglio“. E quel posto coincide teoricamente con qualsiasi panchina di qualsiasi campionato e categoria. Sarà pure questo, il bello del pallone, ma restiamo perplessi.
Sino a qualche mese fa, Claudio Ranieri figurava virtualmente sul carrello dei bolliti, con mostarde e salsa verde pronte a guarnirlo, perché ormai troppo vecchio, troppo distante dal “nuovo calcio” e, peccato ancor più grave, perché è uno “che non hai mai vinto niente“. Quest’ultima è l’accusa più feroce, la marchiatura a fuoco destinata inesorabilmente a segnare carriere decennali (si pensi a Zeman), nel sottendere, di fatto, il sotterraneo disprezzo per chi non vince, onta massima secondo certi parametri che appartengono al più volgare senso comune. Nello sport, ben più spesso che nella vita, il salto dal carrello di cui sopra al carro dei vincitori può essere, però, assai repentino e sorprendente. Basta (per così dire) un campionato azzeccato, un pizzico di fortuna (elemento che, sia chiaro, aiuta chi si fa un mazzo tanto) e il gioco è fatto: dal rango di falliti si assurge a quello di maestri e santoni.
Talvolta, però, non è neppure sufficiente vincere: prendiamo il caso di Massimiliano Allegri. Dopo un’ondivaga esperienza al Milan (scudetto al primo tentativo, poi secondo e terzo posto con squadra in smantellamento), giunge alla Juve con la singolare etichetta di perdente, tra sospetti, ironie e mugugni. Entra in punta di scarpini in uno spogliatoio reduce da tre anni di Antonio Conte: vince campionato, Coppa Italia e si gioca (non male) la finale di Champions (non accadeva da dodici anni), ma una certa critica continua a insinuare che i meriti sarebbero da attribuire al predecessore (peraltro oggi assolto in sede ordinaria dalle accuse relative al processo per il caso di calcioscommesse del 2011). Gli rivoluzionano la squadra e lui, dopo una partenza critica, vince ancora lo scudetto, in Champions si arrende solo ai supplementari contro un favoritissimo Bayern ed è tuttora in corsa per ripetere la doppietta campionato-Coppa Italia. Ciò nonostante, una parte della stampa continua a considerarlo un intruso.
Consideriamo, infine, le parabole, diverse per dinamica, di Rafael Benítez e del suo più giovane connazionale Luis Enrique: il primo, da maestro (quasi) indiscusso, dopo aver iniziato la stagione sulla panchina della squadra più titolata al mondo con l’obbligo di “vincere tutto”, ha chiuso da allenatore del retrocesso Newcastle, pur non essendo il vero (né l’unico) responsabile del risultato negativo e, al contrario, avendo colto una serie incoraggiante di successi che hanno fatto sperare sino all’ultimo i tifosi inglesi. L’altro, al secondo titolo nazionale consecutivo sulla panchina del Barcellona, deve ancora farsi perdonare, dalla stampa italiana, il “fallimento” conseguito a Roma (nota piazza in cui allenare è facile: chiedere all’ex stimato Rudi Garcia) e, da quella catalana, il fatto di non essere Guardiola e non dimostrare un particolare interesse verso un certo tipo di retorica (la cantera, la “differenza” ecc. ecc.) quasi obbligata in casa blaugrana. Arrivare davanti alle due squadre finaliste di Champions, per alcuni, è un risultato “normale”, che non merita enfasi, così come essere autore di una delle più mirabili integrazioni tra individualità eccellenti che si ricordi: pensare che far coesistere (in quel modo!) tre tipi come Neymar, Suárez e Messi sia impresa banale è davvero da ingenui, ma tant’è, “al suo posto vincerebbe chiunque“. Infatti, i grandi (e i piccoli) club chiamano proprio chiunque ad allenare, perché, si sa, amano regalare soldi e fare beneficienza.
La lista di “incompetenti di successo” baciati dalla sorte potrebbe continuare all’infinito: da Ancelotti (un altro che pare debba farsi perdonare chissà quale peccato per vedersi riconoscere i giusti meriti) a Pellegrini, ma il discorso vale alla perfezione anche per scendendo di livello e categorie.
Il punto è che, nel sistema calcistico vigente, l’allenatore è l’unico elemento che può saltare (e pagare) in qualsiasi momento: non si possono cacciare i proprietari, non si possono allontanare (all’istante) i calciatori. E, così, chi allena sa bene quanto fragile possa essere la propria posizione, dato che il proprio operato è messo costantemente nelle mani (anzi nei piedi) altrui.
Passare giornate intere a studiare tattiche, vedere partite, riflettere sui sistemi di preparazione più adatti ai proprio organici dev’essere necessariamente qualcosa di superfluo, perché è ovvio che noi (siamo ironici), osservando il campo dalla televisione praticando uno dei nostri passatempi preferiti, scorgiamo cose che, senza dubbio, questi mangiapane a tradimento non sanno proprio vedere.