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L’ultima corsa di Elio De Angelis e quel rimpianto che non se ne va

La morte di un ragazzo di 28 anni non provoca soltanto dolore, ma trascina con sè un vago senso di ingiustizia verso qualcosa che sembra sovvertire il canonico ordine degli eventi. Quando però si tratta di un pilota considerato la speranza dell’automobilismo italiano, destinato a raccogliere il testimone da Patrese e da Alboreto per puntare, un giorno a subentrare ad Alberto Ascari – ultimo italiano a vincere il Mondiale – nell’albo d’oro, il rimpianto si acuisce. Trent’anni fa esatti, quando da Marsiglia rimbalzò la notizia che Elio De Angelis non era sopravvissuto allo schianto contro le barriere e all’incendio della sua Brabham, il mondo della Formula 1 pianse l’addio a un pilota grintoso in pista e di una persona gentile ed educata fuori dall’abitacolo.

Solo con il trascorrere del tempo, al cordoglio per la sua scomparsa, si aggiunse il cocente rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Le 2 vittorie e i 10 podi ottenuti con la Lotus sembrano infatti suggerire che, se il destino avesse deciso diversamente, la carriera di De Angelis avrebbe riservato altre gioie al pilota romano, ai suoi tifosi e all’Italia. I suoi stessi esordi parevano suggerire che la fortuna fosse dalla parte di quel giovane pilota colto, appassionato di musica, tanto da aver coltivato il sogno di diventare compositore, affascinante come un attore e proveniente da una famiglia così benestante da spingere il padre ad acquistare una Chevron per permettergli di gareggiare in Formula 3.

Grazie agli ottimi risultati conseguiti, compreso un trionfo a Montecarlo, ricevette le prime offerte per gareggiare in Formula 1. Scelse la Tyrrell, ma la scuderia inaspettatamente stracciò il contratto. De Angelis vinse la causa, ma si ritrovò appiedato. Intervenne allora Enzo Ferrari, il quale intuì il suo precoce talento e consigliò a Minardi di ingaggiarlo per il campionato di Formula 2. L’ingresso in Formula 1 avvenne finalmente nel 1979, al volante di una modesta Shadow, con cui riuscì a conquistare un insperato quarto posto negli Stati Uniti. A fine stagione, come già accaduto con Enzo Ferrari, fu un altro nome leggendario del Circus a contattarlo. Si trattava di Colin Chapman che, dopo qualche giro di prova al volante della Lotus, lo assunse come seconda guida.

Alla scuderia inglese sarebbe rimasto sei anni, fra alti – due vittorie, all’Österreichring in Austria e a San Marino – e bassi, dovuti soprattutto alla morte di Chapman, nel 1982, ai difficili rapporti con il suo successore Peter Warr e alla decisione di quest’ultimo di puntare su un emergente in cui molti intravedevano i prodromi di un talento straordinario: Ayrton Senna. Al termine di una stagione vissuta con quest’ultimo quasi da “separati in casa”, De Angelis salutò la Lotus e si accasò alla Brabham. La vettura alle prime uscite non si mostrò estremamente competitiva e inoltre alcune soluzioni scelte dal suo progettista, Gordon Murray, parvero a molti troppo estreme, a scapito dell’affidabilità. Il pilota italiano era però determinato a contribuire al miglioramento della monoposto e fu forse questo suo orgoglioso puntiglio che lo spinse a chiedere a Riccardo Patrese, suo compagno di squadra designato a girare con la BT55 nei test a Le Castellet, di permettergli di prendere il suo posto. Un permesso che gli venne subito accordato e che oggi risuona come la prima mossa del Fato in una tragica partita a scacchi.

L’incidente avvenne sul rettilineo del Paul Ricard: l’alettone posteriore si staccò e la vettura, impossibile da controllare, sbandò, si ribaltò cinque o sei volte schiantandosi contro le barriere e infine incendiandosi. All’epoca non erano previste misure di sicurezza per i test e fu proprio a seguito di questa disgrazia che la Federazione impose la presenza dei soccorsi e del personale medico come nei Gran Premi. Toccò ai piloti presenti cercare di salvare il collega: Lafitte, Alan Jones, Rosberg, Mansell provarono a domare il rogo con gli estintori presenti sulle proprie vetture, mentre Alain Prost si lanciò fra le fiamme nell’estremo tentativo di trascinarlo fuori dalle lamiere. A poco meno di 30 ore dall’incidente, i medici dell’Ospedale di Marsiglia, dove era stato trasportato privo di coscienza, ne decretarono il decesso.

Il progettista sudafricano Murray si convinse di essere il responsabile di questa morte, causata dal distacco dell’alettone. Abbandonò la Brabham al termine della stagione e si ritirò dal mondo dei motori ad alto livello. Non fu però il solo a incolparsi per quanto avvenuto. Ayrton Senna, il rivale dei tempi della Lotus, confessò anni dopo ad “Autosprint” di essere transitato il giorno prima lungo lo stesso rettilineo che sarebbe stato fatale a De Angelis, notando l’assenza di servizi di sicurezza. Si ripromise di discutere la questione una volta rientrato ai box, ma ammise amaramente di averlo poi dimenticato. Forse fu proprio quello che lo avrebbe spinto, in seguito, a battersi in più occasioni per ottenere maggiori garanzie in materia di sicurezza. Per quella dimenticanza che lo portò a rivelare che “per questo anche io mi sento addosso una parte di responsabilità per quello che è accaduto”.