Editoriali

Steph back

Quando Stephen Curry entra sul terreno di gioco di Portland, nell’incontro di gara 4 dei playoff NBA, il tabellino recita il seguente punteggio: 16-2 per i Blazers, padroni di casa e del gioco sino a quel momento, una squadra in totale fiducia e convinta di completare la rimonta sui favoriti Golden State Warriors. Dopo un inizio stentato, l’MVP inanella una serie positiva di tiri e riesce ad avere in mano la palla della vittoria, che scivola sul ferro ed esce regalando altri cinque minuti agli appassionati di pallacanestro. Cinque minuti che entreranno nella storia. 17 punti su 21 totali realizzati dalla franchigia californiana portano il nome di Stephen Curry, mai nessuno aveva fatto registrare una prestazione simile nel supplementare ai playoff. Tutto questo al rientro da un infortunio, con la propria squadra in grave difficoltà e, per qualche minuto, a un passo dal 2-2 nella serie che avrebbe completamente riaperto i giochi.

A colpirmi maggiormente, però, non sono tanto i punti realizzati, gli assist o il numero di triple segnate: sono numeri che ti aspetti dal miglior giocatore della lega e da un leader che, nel momento del bisogno, negli ultimi due anni ha sempre trascinato i compagni a un livello che è per pochi eletti. Il fatto è che i Blazers si sono trovati in difficoltà anche quando Curry giocava al di sotto dei propri standard, ossia nei primi tre quarti, perché uno come lui lo devi tenere d’occhio anche se il canestro sembra essersi rimpicciolito. In pratica solo la sua presenza in campo è un rebus difficile da risolvere per gli avversari: è il classico trattamento riservato dalle difese ai futuri Hall of Famer come Kobe Bryant o LeBron James, tanto per citarne due qualunque. E non a caso i primi complimenti per la partita, arrivati mezz’ora dopo il termine della stessa, portano la firma di Damian Lillard, suo avversario quella notte e ammaliato dai canestri del #30. “E’ il più grande tiratore nella storia di questo sport” e se a dirlo è quanto di più simile a Curry tra quelli ancora in attività, non si fa fatica a credergli.

I’m back“. E’ l’urlo che, nel pieno della trance agonistica, riserva a tutto il pubblico di Portland subito dopo la tripla del 123 a 118, quella che ha praticamente ucciso la partita nel supplementare. Nemmeno la lontananza dal parquet per quindici giorni gli hanno fatto perdere la fiducia di una stagione irripetibile nei numeri: non a caso proprio oggi è arrivata la nomina a MVP della stagione regolare attuale, con 131 voti su 131. Proprio quell’unanimità che nessuno era riuscito a ottenere nella storia dell’NBA e che LeBron James aveva soltanto sfiorato nel 2013.

La strada verso le finali, però, è tutt’altro che spianata. Dall’altra parte, infatti, Oklahoma e soprattutto San Antonio hanno le carte giuste per mettere in difficoltà la franchigia di San Francisco, per non parlare di Cleveland che, ancora in battuta, potrà riposarsi per molto tempo prima di disputare le finali di conference. E la stanchezza, in una stagione da oltre cento partite disputate, può fare la differenza tra vincere o perdere, tra prevalere o soccombere.

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Alessandro Lelli