Ci sono squadre alle quali, da non tifosi, ci sentiamo comunque affezionati. Così, è difficile per un nato nella prima metà degli anni Ottanta non sentire qualcosa per il Milan, che nel decennio successivo si issò continuamente alla vetta. Si era ripartiti da un nulla prodigo di futuri campioni (Maldini, Baresi e non solo), c’erano gli uomini e c’erano i mezzi.
Quindi sì, lo capisco, lo sgomento del tifoso milanista quando ancora vede le stesse facce girare attorno a via Aldo Rossi, o al Meazza, o a Milanello. Capisco benone che, al senso di familiarità, è subentrata la stanchezza. Le epoche si chiudono. Cambiano, come minimo. Si devono rinnovare.
Non so più come dirlo: vedere il Milan così in basso è un ulteriore danno all’immagine del calcio italiano. È come il River Plate in serie B. È la lenta agonia di una società che, non più tardi di vent’anni fa, metteva in riga tutti. Oggi, diciamocelo francamente, viene messo in riga persino dal Sassuolo che, pur con tutto il rispetto e l’affetto di cui siamo capaci, è un punto indietro e non può reggere alcun paragone con i rossoneri.
Una dinastia è una dinastia; e le recenti vacche magre non scalfiranno un blasone tra i più ricchi in assoluto. Solo che, per rinnovarne la fortuna, è necessario anche rinnovarne la natura. Non l’immagine: l’essenza. Dopo avere rilevato il Diavolo da Giussy Farina, Berlusconi non lesinò in idee, azzardi, conoscenze e intuizioni. E a una folgorazione come Arrigo Sacchi vennero poi dati mezzi in abbondanza.
Fa doppiamente male vedere il Milan male in arnese, anche pensando proprio alla scuola tecnica che ne è uscita: cito solo Rijkaard, precursore di Guardiola, la cui splendida Olanda si dovette spegnere contro super-Toldo negli Europei del 2000 – e le dimissioni immediate, sul momento attribuite a una decisione presa in precedenza. La capacità di lasciare il posto.
Oggi si va al Milan perché il Milan non si può rifiutare: è la fedeltà degli ex. Emery non ci pensa neanche, ma un Seedorf, un Inzaghi, un Brocchi sono troppo vicini, troppo legati, per potere rifiutare. Il prestigio è intatto, anche quando il presente è mogio. Dopo Ancelotti, un certo senso di vuoto: tra i “bruciati” anche Leonardo, che non aveva fatto malissimo (d’accordo, il terzo posto con l’Inter campione era una delusione; ma è anche vero che il 4-2-fantasia aveva portato a prestazioni insperate, come la prima storica vittoria rossonera al Bernabéu). E i forestieri sono poco graditi.
Quanto spreco: di idee, di risorse. Non mi piace ridurre la vita a contabilità (anzi, la penso all’opposto), ma l’economia recente del Milan è disastrosa: spesi oltre 150 milioni negli ultimi due anni, per due esercizi chiusi attorno ai 90 milioni di rosso (crepi l’avarizia). Una rosa ipertrofica (64 calciatori e addirittura 108 tecnici), per una navigazione a vista e risultati che non arrivano. L’illusione di mister Bee perché nulla cambi.
Che poi, ripeto, in trent’anni il Milan è vissuto sempre sui soldi del padrone: solo tre bilanci chiusi in attivo – ci sta, trattandosi del giocattolo preferito del proprietario. Ma anche lui dev’essersi distratto, o annoiato, perché nelle ultime tre stagioni sono arrivati un ottavo, un decimo posto e un qualcosa tra il sesto e il nono posto (improbabile, ma non impossibile, vista la sconfitta in casa dell’Hellas). E tra un mese si giocherà la finale di coppa Italia, conquistata nientepopodimenoché contro l’Alessandria.
Per cui, lo ripetiamo, ben vengano i cinesi o chi per loro. Ci si è chiusi “in casa”, si soffrono gli Allegri e i Mihajlović come dei corpi estranei… ma è proprio ciò di cui ha bisogno il Milan per ripartire. Corpi estranei. Una logica diversa, un modo di pensare diverso. Quello che aveva permesso al Milan degli olandesi di essere un lustro avanti agli avversari. Quello che potrebbe permettere al Milan dei cinesi di fare qualcosa di diverso. Continuare a succedere a se stessi è una non-strategia: un eterno piano B.