Ci sono troppi stranieri!1!11! Forse perché gli italiani sono scarsi?
Inter-Udinese di ieri sera probabilmente non passerà alla storia per quel che s’è visto in campo ma per il fatto che è stata la prima partita della storia della Serie A che è cominciata senza alcun italiano tra i titolari. Il dibattito sui #troppistranieri è già in corso da un bel pezzo ed è facile scadere subito nella retorica. Le argomentazioni sono sempre le stesse, dallo scarso coraggio degli allenatori che non osano lanciare i giovani dei vivai in prima squadra all’invocazione semi-apocalittica sul futuro della Nazionale («Ma nessuno pensa all’Italia? Guardate quanta fatica fa Conte a rimediare un undici! E sarà sempre peggio!»), passando per i dubbi sulla qualità media dei giocatori forestieri che militano nel nostro campionato o all’amarcord su com’era bello il Piacenza tutto tricolore. E ci fermiamo qui perché si potrebbe andare avanti per un bel pezzo.
Il discorso è molto ampio e trovare le cause di questa sfiducia nel “prodotto italiano” è un lavoro lungo ma, per sommi capi e senza pretese di esaustività, si può provare a rispondere citando alcuni dati di fatto che senz’altro hanno contribuito a creare la situazione attuale.
In primis, non si può non partire dalla famigerata sentenza Bosman, che ha veramente rivoluzionato lo scenario del calciomercato e ha letteralmente abbattuto i confini tra gli stati europei ben prima dell’entrata in vigore dell’acquis di Schengen: con l’introduzione della norma che vietava la discriminazione tra giocatori appartenenti a nazionalità comprese entro i confini dell’UE, di fatto, tutti i calciatori in possesso di un passaporto comunitario sono tesserabili a volontà dai vari club comunitari, senza più alcuna distinzione di nazionalità.
Sono passati solo ventun anni eppure spesso ci si dimentica di questa fondamentale innovazione che, pure, è basilare perché da allora non ha più senso parlare di “stranieri” (in senso lato) riferendosi a dei giocatori comunitari. Di fatto, dal punto di vista giuridico-calcistico, all’interno del mondo UEFA, straniero significa più extra-comunitario che “persona non nata entro i confini del Paese che ospita il campionato in cui gioca” e qui c’è un primo corto circuito, perché a livello di percezione popolare “straniero” è solo “non italiano” – giustamente, anche. Un calciatore francese non sarà mai percepito come un calciatore italiano eppure, per la UEFA, non c’è differenza.
La globalizzazione, però, non s’è fermata al solo territorio europeo: con l’aumento e il miglioramento dei sistemi di comunicazione e delle tecnologie, lo scouting s’è evoluto fino a diventare potenzialmente mondiale. Del resto, perché accontentarsi di visionare i giovani promettenti di un solo paese quando si ha a disposizione un insieme di nazioni, un continente o il globo intero? Nella nostra epoca, in cui i confini sono sempre di più linee immaginarie piuttosto che mura difficili da valicare, anche il calcio non può più essere costretto dentro i margini di un solo Paese. Del resto è così tutto il mondo in cui viviamo oggi, perché il pallone dovrebbe fare eccezione? È semplice progresso: a nuove azioni corrispondono anche nuove reazioni.
Secondariamente non si può non fare i conti col maggior costo di un giovane italiano rispetto a un giovane di altre origini (di solito extra-europee ma non è matematico), perché l’indotto del mondo del pallone – negli ultimi quindici anni soprattutto – è arrivato fin dove è riuscito, ossia abbondantemente sotto la soglia della maggiore età. Può quindi capitare che un calciatore quindicenne debba ancora aspettare tre anni per fare la patente ma nonostante questo abbia già magari uno sponsor tecnico, uno o anche più procuratori e rappresentanti, magari un avvocato e, chi lo sa, forse persino il commercialista. Magari non tutti ma senz’altro per la maggioranza – parlando ovviamente di ragazzi che aspirano a essere professionisti – è così. Un club che voglia tesserare il ragazzo è costretto ad avere già parecchi interlocutori che, in diversi casi, vogliono anche una percentuale sulla possibile transazione. E il costo del ragazzo inizia a gonfiarsi senza che alla base ci sia un valore concreto che ne giustifichi l’impennata ma solo tutta un’avida corte dei miracoli che vede la nostra promessa quasi esclusivamente come una piccola fonte di guadagno (anche se c’è qualche eccezione, come sempre). Spesso gli stranieri costano meno perché attorno a loro spesso e volentieri (specialmente nel caso di ragazzi che provengono da Paesi in via di sviluppo o addirittura del terzo mondo) tutto questo ambaradan non c’è ancora e, anzi, si crea solo una volta che mettono radici da noi, venendo fagocitati dal nostro sistema.
La disparità di costi tra il tesserare un italiano e un extra-comunitario porta con sé l’ovvia conseguenza che già nei settori giovanili vengono inserite delle “promesse” di origine non autoctona, perché si preferisce investire su ragazzi che costano poco e sembrano poter rendere tanto piuttosto che su italiani che costano tanto (anche nel caso in cui rendano tanto). Qui si può allargare il discorso anche a tutta la problematica sul prediligere la componente fisica rispetto a quella tecnica per fare risultati già a livello giovanile, che però è un discorso ce ci porterebbe troppo lontano: basti dire che è forse il più grande male del nostro sistema giovanile.
Sistema di formazione dei giovani calciatori che, appunto, ormai non funziona più. Proviamo a contare quanti top player più o meno indiscutibili nostrani sono nati negli anni ’80 o ’90: nella prima decade troviamo Bonucci, Barzagli, Marchisio e De Rossi (solo il numero 19 bianconero è nato nella seconda metà del decennio, peraltro), nella seconda solo Insigne e Verratti , sui quali diamo per scontato (anche se non lo è) che riusciranno a confermarsi sui loro migliori livelli anche per tutto il resto della loro carriera futura. Possiamo anche guardare al palmarès delle nostre rappresentative giovanili o ai risultato delle primavere dei nostri club principali quando sono chiamate a misurarsi con quelle di altre realtà continentali, per esempio all’interno della Youth League: non troveremo mezzo successo recente che sia uno. Certo sono tutti parametri parziali ma rendono già un’idea precisa del frangente non felicissimo che stiamo vivendo adesso, conseguenza diretta di un metodo di formazione così evidentemente superato da risultare addirittura antiquato (in generale, ovviamente. Per fortuna non manca qualche eccezione luminosa).
Infine, ed è forse l’argomento principe della questione, non si può non convenire che, tanto premesso il discorso sulla vetustà del sistema di formazione tricolore, il livello qualitativo medio dei calciatori italiani è tristissimamente sceso. E nemmeno poco, a dirla tutta. Forse, infatti, la causa principale di questa assenza di giocatori italiani forti e, a ben vedere, anche di calciatori italiani semplicemente sopra (o persino nella) media, è dovuta al processo di involuzione che da anni le nostre squadre stanno affrontando un po’ a tutti i livelli. Il solito circolo vizioso: meno soldi, meno campioni in Serie A (di qualunque provenienza), meno idee, meno risorse, meno qualità tecnica. È un problema sistemico innanzi tutto, in cui forse s’è anche inserita una problematica ciclica, e cioè che non abbiamo a disposizione una generazione talentuosa come tante altre. Come capitano i cicli d’oro, in cui sembra che saltino fuori solo giocatori molto bravi, può anche capitare che ci siano cicli poco esaltanti o addirittura deludenti.
Il cuore del problema è che i calciatori italiani sono diventati troppo scarsi per poter pensare di giocare titolari in una qualsiasi squadra di Serie A senza sforzo (o quasi). Perché se spesso si pensa: “Ma perché gioca X (calciatore straniero a piacimento)? Mi rifiuto di credere che non ci sia un giovane della primavera al suo livello!” nulla vieta di considerare anche l’opposto (“Gioca X! I nostri ragazzi della primavera devono proprio essere scarsi se non riescono a battere nemmeno la concorrenza di X”) anche se nessuno sembra voler mai fare lo sforzo di vedere le cose dall’altra prospettiva, probabilmente perché è più comodo considerare un giocatore italiano più forte degli altri, a prescindere. Forse perché proiettiamo sui calciatori nostri connazionali un desiderio di “superiorità calcistica” più o meno innata a compensazione delle nostre mancanze o frustrazioni. Chissà.
Forse siamo tutti troppo occupati a crogiolarci nelle nostre bellissime argomentazioni pseudo-nazionalistiche e insopportabilmente retoriche, senza fondamento alcuno, che sono slegate dai contesti in cui viviamo. Oppure è pensiamo che, alla fine, il talento salterà fuori spontaneamente e ci salverà tutti d’emblée, in qualche modo e senza cause apparenti. La verità dei fatti, invece, ci dice che il problema dei #troppistranieri non è qualcosa che dobbiamo combattere in nome di un’italianità a priori non meglio definita (e che, stranamente, spunta fuori solo quando si parla di pallone) ma una manifestazione dei gravi sintomi che il nostro sistema calcio denuncia ormai da anni, segno di una decadenza (non troppo) lenta e inesorabile. Siamo ancora in tempo per provare a invertire il corso della storia e rialzare la testa ma sarà necessario fare prima di tutto severa autocritica e poi essere disposti a ripensare dalle fondamenta il sistema italiano delle giovanili calcistiche.
Ne siamo capaci?