Barcellona: trionfi, rovesci e troppe parole
Mai dire mai, adagio traslato dal grande schermo al frasario comune e che nel magico mondo dello sport trova, non di rado, felicissime applicazioni. Non sempre è così, specialmente negli ambiti in cui le sentenze agonistiche paiono già scritte sin dall’inizio (ultimo caso: la Francia da tempo soggiogata a suon di petrodollari dallo strapotere d’un PSG novello dominatore della Ligue), benché esistano tornei particolarmente vocati all’alternanza, almeno tra chi finisce per contendersi il titolo (che, va ricordato, va sempre solo e soltanto a un club). Ci riferiamo alla Champions League, ovviamente, ma guardiamo alla Spagna, a quel campionato ormai divenuto modello irraggiungibile (?) di perizia tecnica, assieme al paese che ne è la culla e che rappresenta, da qualche lustro, un’autentica potenza sportiva (le illazioni sui trucchi, non peregrine, le lasciamo per oggi da parte).
Non più in là poche settimana or sono, a scorrere i giornali affiorava la nettissima impressione che meglio sarebbe stato, per i mesi di aprile e maggio, concentrarsi su altro, attendere i nuovi episodi di Game ot Thrones, insomma, ché, tanto, il Barcellona di Luis Enrique e de los tres tenores d’attacco avrebbe senz’altro centrato un filotto di vittorie in quanto “squadra più forte del mondo”. In barba alle odiatissime merengues, alle sterline dei Citizens ancora all’asciutto continentale, a quell’ex non più così rimpianto emigrato in Baviera (ma dalle parti del Camp Nou i mister, pur vincenti, han sempre contato non più di tanto rispetto ai giocatori). In barba a tutti.
E giù, articolesse sulla perfezione, l’imbattibilità, la collocazione storica di una squadra certo fortissima, certo impressionante, ma che lo iato (quasi) oggettivo che intercorre tra cronaca e storia aveva (e ha tutt’ora) da colmarlo. Eppure, quei tre davanti parevano far eclissare la memoria dei grandi che furono, e non sono pochi, nella storia del calcio, della Liga e della Coppa dei Campioni.
Per fortuna dei giornalisti-aedi un po’ maldestri, i lettori hanno (forse) corta memoria, interessati come sembrano più alla retorica che all’analisi, all’emozione istantanea più che a quella filtrata (anche) dalla riflessione. Sia chiaro: non siamo qui a goder delle disgrazie altrui, ora che i blaugrana rischiano, e non poco, pure in Primera División, dopo la batosta inferta loro dal Valencia che ha nei fatti riaperto la corsa (ovviamente a tre) per aggiudicarsi il titolo. Che fine ha fatto, vorremmo chiedere, la “macchina invincibile”, la squadra candidata a riscrivere la storia della pelota? Lo diciamo pure con dispiacere, ché veder campione Luis Enrique, due stagioni prima sbertucciato dalle parti di Trigoria come l’ultimo dei Maifredi, ha procurato non poco piacere a gente che, come lo scrivente, ama assistere alla pugna sportiva con la tranquillità di chi siede sul fiume in metaforica attesa dei cadaveri a pelo d’acqua. E, da cultori del bel calcio in tutte le sue sfumature, non possiamo non amare i Culés, almeno sin dall’era Pep (quello sì che fu un ciclo!), in grado, complice le incommentabili condotte madrilene del Rosic One portoghese, d’eradicare una quasi trentennale simpatia madridista. E che fine hanno fatto, ci rivolgiamo ai detrattori preconcetti, quelli del lamento a tenuta stagna (in buona compagnia: pensiamo al Cholo Simeone, le cui parole e atteggiamenti dopo la recente andata dei quarti di Champions… sussurrano vendetta), le recriminazioni per i favori arbitrali a Messi & co., che l’occulta mano dell’UEFA avrebbe voluto in finale per chissà quali bizantinismi dietrologici?
Parole, parole, parole, peccato che nessuno, o quasi, se ne assuma poi il carico, là dove, nello sport e non solo, sarebbe comunque più consigliabile, secondo il nostro avviso, una certa cautela. Vi ricordate i discorsi sul modello tedesco assolutamente da seguire dopo il trionfo, pure meritato ma non esenta da episodi fortuiti, della Germania ai Mondiali? Discorso, sia chiaro, sorto solo dopo semifinali e finale brasiliane, e mai durante il decennio di purghe subìte dai panzer a partire dal 2002, quando il modello era già in funzione e garantiva comunque la possibilità di lottare (quasi) sempre per i titoli in palio. Sembrano passati vent’anni dalla germanomania, benché la recente débâcle di Monaco subita dalla nostra Nazionale abbia riportato in auge certe considerazioni, che acquisiranno inusitata forza nel caso in cui Guardiola riuscisse a salutare nel migliore dei modi i biancorossi di Baviera.
Di certo, lasciando ad altri (non è detto siano più esperti) il maneggiar locuzioni e concetti ostici quali “storia”, “mondo”, “di tutti i tempi” e così via, ci convinciamo sempre più che, nel calcio contemporaneo, al di là d’un rango tecnico di livello e d’una conduzione che sappia far coagulare il materiale (umano in primis) disponibile, lo stato di forma e, soprattutto, una peculiare inerzia possano costituire il vero discrimine tra una stagione da protagonisti e quella da trionfatori. Non esistono (quasi) mai sentenze già redatte (la finale Juve-Barça della passata stagione lo dimostra, in qualche modo) e questo, in un panorama sempre più inquinato da flussi economici non sempre trasparenti, costituisce pur sempre un buon motivo di fascino per quello che resta uno degli sport più affascinanti che vi siano.