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Il Milan, Mihajlović e il rapporto tra colpe e meriti

A inizio stagione, si preannunciava uno strano derby: da un lato Mancini alla seconda reincarnazione nerazzurra, dall’altro quel Siniša Mihajlović che del tecnico jesino era stato il secondo, e che con l’Inter aveva chiuso la carriera da giocatore. E che, in forza di ciò, era stato accolto con una comprensibile diffidenza.

Per carattere, diffido delle passioni troppo forti; tra queste, la cosiddetta “fede” sportiva. Insomma, non sarei mai uno capace di dare sganassoni al patron di turno, come successo più volte nella nostra storia sportiva; alla rissa (anche solo verbale) preferisco lo stiletto.

Ma è difficile non capire la più che legittima delusione dei tifosi milanisti, per l’esonero di Mihajlović. Anzitutto per la tempistica: a sei giornate dal termine del campionato, con la squadra sesta (a 7 punti dalla Fiorentina) e in finale di Coppa Italia. Quindi: regolamento UEFA alla mano, doppiamente in corsa per la prossima Europa League (qualificazione automatica se porta a casa la coppa, o garantita nel caso i rossoneri finiscano sesti).

Ancora più inspiegabile, quindi, l’enfasi che sia Berlusconi che Galliani avrebbero dato ai motivi dell’esonero: non tanto i risultati (che di recente parlano sin troppo chiaro: a un confortante periodo di 9 partite senza sconfitte, ne è seguìto adesso uno da 2 punti in 5 gare), quanto «correggere, con il cambio dell’allenatore, un trend di gioco non all’altezza della storia dell’A.C. Milan perché, diciamolo chiaro, al di là dei risultati, non abbiamo mai visto il Milan giocare così male» (Berlusconi dixit).

L’impressione era e resta quella: nel calcio italiano si guarda a vista, e il Milan è soltanto l’esempio più altisonante. Rispetto agli altri anni, stavolta si era visto un mercato più quadrato (e anche più danaroso, diciamolo), chiuso però con il più che discusso arrivo di Balotelli, per una squadra da affidare a un sergente di ferro, che l’anno prima era stato nominato allenatore dell’anno.

Risultati altalenanti, squadra che alterna periodi di concretezza ad altri in cui sembra persa nel proprio non-gioco. Tutto vero: ma difficile fare di meglio, a mio parere, per una squadra i cui giocatori migliori sono nuovi arrivati, e il cui spogliatoio non sembra propriamente un consesso di educande.

È arrivata la finale di Coppa Italia (complice anche il tabellone, vero), ma in panchina ci sarà Brocchi. Si diceva che la finale avrebbe potuto salvare la stagione del Milane e la panchina di Siniša, ma adesso le due cose non coincidono più, e la tifoseria è spaccata (meglio: compatta contro la dirigenza). E dovrà sostenere Brocchi in ogni caso.

Ora, prendiamo il nuovo tecnico, che alla guida della Primavera rossonera ha realizzato un girone di ritorno impressionante (9 vittorie e un pareggio): sette partite per giocarsi il futuro, ma che possa anche serenamente sbagliare (come un Ferguson o un Wenger, se ci è permesso un paragone insospettabilmente alto). A Brocchi si affidi una bella macchina, non necessariamente una Ferrari; poi gli si forniscano gli acessori di cui sente bisogno. E, se poi vince il Sassuolo, pazienza e si ritenta. Poteva essere così con Seedorf, poi Inzaghi, poi Mihajlović – perseverare è diabolico.

È il cosiddetto “Paradosso di Zamparini”: vero che un presidente, con un esonero, può porre rimedio a un proprio errore; ma altrettanto che, con certe presidenze invadenti o viceversa assenti, bisognerebbe esonerare direttamente il padrone del vapore. In un certo senso, ci avrebbe provato Mister Bee, se mai sapremo come andrà a finire… per adesso bisogna accontentarsi di Mister B come Brocchi. E qui sorge anche la domanda: la vittoria o meno della Coppa Italia sarà frutto/colpa di chi c’era prima o di chi è arrivato dopo? Dandogli la squadra adesso, Mister Brocchi ha ogni alibi già preconfezionato. All’altro Mister B l’ardua sentenza.