L’infinita voglia di vincere di Kobe Bryant
E’ difficile trasmettere a parole cos’è stato Kobe Bryant per me. Non per il basket in generale, per quello possono tranquillamente parlare statistiche e numeri, non c’è bisogno di altro. Per me (e credo per chiunque non abbia avuto l’onore di vivere l’era Michael Jordan) è stato molto più che il miglior giocatore dopo il ritiro del #23. E’ stato un personaggio tra i più discussi del decennio passato, è stato il simbolo di una franchigia che ha vissuto alti, bassi, poi di nuovo alti e infine oggi si ritrova a omaggiare il ritiro di uno dei più grandi giocatori della propria gloriosa storia con una situazione a dir poco disastrosa. E’ stato Kobe Bryant.
Andiamo per gradi: dopo i tre titoli consecutivi da “secondo violino” al fianco di Shaquille O’Neal, la volontà di Kobe era quella di vincerne almeno un altro da protagonista assoluto, con le chiavi dei Lakers nelle sue mani. Facile a parole, meno nei fatti perché in NBA si vive spesso di cicli vincenti e perdenti, e non tutti i giocatori hanno l’opportunità di vivere ben due periodi d’oro: l’arrivo di Pau Gasol, però, apre le porte a una seconda possibilità. Un evento che si concretizza con la vittoria del titolo nel 2009, in una finale a senso unico contro gli Orlando Magic di Dwight Howard. Perché mitizzare la vittoria del quarto titolo e non, per esempio, quella contro i Celtics al termine di gara 7 nel 2010? Semplice, perché nel periodo che intercorre tra il 2003 e il 2009 c’è tutto Kobe Bryant. C’è la voglia di migliorare in ogni singolo fondamentale per diventare il più forte di tutti, tanto da passare alcune estati in compagnia dei migliori interpreti del gioco in post, non esattamente una priorità per una guardia come lui; c’è la voglia di alzare l’asticella sempre e comunque, come quella volta che al primo giorno di training camp con gli USA, dieci giorni dopo aver perso le Finals contro i Celtics, si presentò alle 8 di mattina per fare colazione con tutti gli altri. Solo che lui aveva già il ghiaccio alle ginocchia e ben tre ore di allenamento alle spalle. Una dimostrazione di forza nei confronti dei compagni? No, semplice routine, il prezzo da pagare per rimanere il più forte di tutti. E poi c’è quella faccia, quella dei momenti decisivi, quella che ti fa intuire che il morso del Mamba sta per arrivare e allora non c’è nulla che tu possa fare per frapporti tra lui e il canestro.
Egocentrico ed egoista, un personaggio spesso sopra le righe e una presenza ingombrante per chiunque nello spogliatoio: una sfaccettatura del suo carattere che spesso si è rivelata un’arma a doppio taglio, perché tanti ottimi giocatori sono rimasti schiacciati dal peso del suo carisma e della sua personalità, finendo nel dimenticatoio di casa Lakers.
Più di ogni altra cosa, però, Kobe rimarrà sempre colui che, nonostante un talento fuori dal comune che gli avrebbe permesso di essere tra i migliori al mondo anche allenandosi in infradito, ha spinto se stesso oltre ogni limite fisico per diventare il giocatore principale della sua epoca. L’essenza dello sport e della vita, insomma, e spesso si celebrano i vincenti perché il trofeo è l’elemento che più di ogni altro ti fa riconoscere chi ce l’ha fatta e chi no. Bryant, invece, è stato il primo a dimostrarmi che si può essere vincenti anche nelle sconfitte, è tutta una questione di mentalità e voglia di superare i propri limiti. Ecco perché Kobe non sarà mai e poi mai soltanto un giocatore di pallacanestro.