Se ognuno sapesse stare al proprio posto
A volte, cioè sempre più spesso, penso che ognuno dovrebbe sapere rimanere al proprio posto, e ricoprire il proprio ruolo. E in parte penso anche l’opposto: non solo bisognerebbe essere capaci di stare al proprio posto, ma dovremmo anche essere in grado di metterci nei panni altrui, di capire quali lacci e lacciuoli costringano le controparti a comportarsi in un certo modo. Qualche esempio sparso.
Giorni fa, in un’attività che definirei semi-sportiva, mi sono ritrovato ad assistere a una partita di basket, livello Under 13 o giù di lì. Ero lì non per scrivere ma comunque per lavoro, quindi sempre di ozio affaccendato (Goethe) si parla; ma questo non mi ha impedito di “apprezzare” la civiltà generale. Allenatori che danno lezioni all’arbitro (poco più grande dei giocatori, e febbricitante); genitori che urlano di tutto (ripeto: di tutto, e meglio non dire di più) a un ragazzo che potrebbe essere loro figlio. E che invece sta dall’altra parte della barricata, a interpretare il suo ruolo: fischiare, e prendersi insulti.
Secondo esempio: domenica scorsa, PalaBigi, Grissin Bon Reggio Emilia-Vanoli Cremona 86-77. Aradori che apre la partita con un 5-0, gioca 32 minuti su 40 ed è decisivo per la vittoria. Poi il dopopartita: il giocatore ha riferito su Facebook che, durante l’intervista di Sky, è stato bersagliato dagli insulti dei tifosi avversari, che si sono avvicinati più possibile alla postazione urlando a tutta.
Risposte alla sua intemerata: tanti commenti positivi (alcuni tifosi cremonesi che si scusano a nome degli altri), qualche voce fuori dal coro che dice “meno male che non sei nato 20 anni prima quando nelle trasferte si prendevano sputi e botte. Generazione di mammole” o “questo è il vostro lavoro, non il piagnisteo da finte vittime”. Onestamente: non ci sto, all’idea che, se sei fortunato ad avere uno stipendio da signore, devi anche stare zitto e prenderti gli insulti. Mi sfugge la logica: chi l’ha detto, che le due cose siano correlate?
Infine, e qui vi volevo, la polemica tra Claudio Marchisio e la RAI. “Telecronaca fatta da un non vedente!”, ha twittato il centrocampista della nazionale. E le voci lo vedono ancora sottilmente polemico (“Sono sorpreso che un mio commento … sia stato definito come una “delegittimazione” del lavoro altrui. Ognuno di noi ha il diritto di esprimere il proprio giudizio su una partita. … Infelice e sbagliato è stato invece il mio scivolone, ancorché scherzoso, riguardante i non vedenti. Per questo mi scuso”).
Chi mi conosce sa che non sono un fan di Gianni Cerqueti: io, si sa, sto dalle parti di Stefano Bizzotto. Cerqueti è un signor giornalista, preparato e puntuale, ma non mi “accende”. Ma non per questo ritengo che sia giusto esprimere sempre i propri giudizi, così, senza filtro: come se si fosse tifosi, e non centrocampisti. Come se ancora stessimo urlando contro un arbitro quattordicenne. E si badi bene: non faccio distinzioni di “casta”, visto che anche dal lato giornalistico si dovrebbe imparare a stare al proprio posto (citofonare Liguori). Vale per Sarri, per Mancini, e anche per Marchisio.
Alla fin fine, si dirà, non l’ha preso a male parole. Però, dico io, l’ha insultato lo stesso: gratuitamente, e senza neanche l’arma dell’ironia, spesso utile in certi casi. Si poteva evitare? No: si doveva evitare. Quest’idea che per via della libertà di pensiero si debba dire di tutto è sbagliata, e le stelle dello sport dovrebbero saperlo bene: nell’era di Internet, la loro è anche una responsabilità sociale. Meglio: lo sarebbe, se sapessero stare al loro posto.