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Tesoro, mi si è ristretto il Torino

Bene ma non benissimo il Torino, in questo 2016. O così direbbe qualcuno dotato di elegante ironia, perché i granata – pessimo gioco di parole – non ne vogliono sapere di ingranare.

Da che è girato l’anno, infatti, le vittorie sono solo due, i punti fatti appena dieci in undici gare e la classifica langue, né carne, né pesce, con un anonimo undicesimo posto a due punti di distanza dal Bologna, nono, che tre mesi fa pareva condannato a dover tornare in Serie B prima ancora di dire “Delio Rossi”. Le vittorie larghe e convincenti contro Frosinone e Palermo sono state due episodi sporadici, insignificanti sul lungo periodo, e la squadra pare non avere le forze per rialzarsi dal suo letto di mediocrità. Il gioco è sempre lo stesso: lento, prevedibile, macchinoso e meno fruttifero degli anni passati, così come non hanno aiutato la causa le varie polemiche – principalmente interne – sui casi di Quagliarella (poi saggiamente sbolognato alla Sampdoria) e Maxi López, la cui tendenza a mettere su pancetta meriterebbe ormai un’interrogazione parlamentare.

Siamo chiari fino in fondo: è difficile mantenere su alti livelli un club che ogni anno decide scientemente di cedere i pezzi migliori per autofinanziarsi, questo è ovvio, ma i tifosi restano convinti che Cairo potrebbe, per così dire, essere di manica più larga (ricordate il celeberrimo #CairoBraccino?) e col presidente del Toro che si difende ripetendo la solita litania sulla stima incondizionata per Ventura e sugli investimenti fatti che pareggiano quasi gli incassi derivanti dalle cessioni. Ciò nonostante non è impossibile il Toro stesso ha dimostrato di poterlo fare perlomeno fino allo scorso anno.

La sensazione attuale, invece, è che questo Torino abbia toccato l’apice della piccola curva di rendimento dell’attuale gestione tecnica tra la stagione scorsa e quella precedente e che alla compagine di Ventura tocchi un progressivo decadimento, derivante sia dall’esaurimento del ciclo vitale con l’attuale tecnico, sia da un ringiovanimento della rosa che è innegabile ma che non sta portando i frutti sperati. Se a tutto ciò aggiungiamo una flessione del rendimento di alcuni totem della squadra (su tutti Glik, mai decisivo sotto rete quest’anno e non così di rado impreciso dietro), i quasi settant’anni in due di Gazzi e Vives, i disastri di Padelli, l’efficacia perduta sui calci da fermo offensivi & difensivi e l’età sempre meno verde di Moretti e Bovo – chiamati a giocare forse più spesso di quanto non si pensasse anche a causa dell’infortunio di Maksimović e del non troppo affidabile Jansson – il quadro diventa completo.

Alla squadra mancano quasi del tutto giocatori nella loro piena maturità tecnico/atletica e sembra normale andare dal giovane al maturo (fin quasi vetusto), segno di una volontà di svecchiare che però non ha fatto piazza pulita di tutte le cariatidi che avrebbe dovuto spazzar via e che, anzi, non ha fatto altro che inserire nel progetto dei giovani di qualità insufficiente per mantenere costante l’ambizione. Benassi, Acquah e Obi sono tre giocatori molto simili, non particolarmente versatili (il nigeriano aggiunge addirittura una tendenza all’infortunio macroscopica) che non hanno e non possono avere il guizzo creativo che serve a una compagine statica e sonnolenta come il Toro, Martínez è di una discontinuità sconcertante, Baselli s’è sciolto alle prime difficoltà dopo un inizio da urlo, Zappacosta sta trovando del vero spazio solo adesso che gli infortuni hanno costretto Ventura a dirottare Bruno Peres a sinistra, Gastón Silva è poco più di una comparsa. Non ci si può illudere che a quest’insieme possa bastare un Immobile di ritorno dal Siviglia per aggiustare le cose.

È certamente un peccato considerando quanto fatto fino allo scorso anno ma è un fatto che in questa stagione mister Libidine non solo non stia riuscendo a far fare il salto (mentale e non solo) di qualità ai suoi giocatori ma, addirittura, non riesca nemmeno a essere in linea con le aspettative di società e tifosi. Ciò nonostante, gli è stato fatto firmare un rinnovo che – oggi – non ha molte spiegazioni se non quelle derivanti dalla riconoscenza che pure Ventura ha meritato rimettendo il Torino sulla mappa del calcio italiano più interessante.

A pelle, però, l’unica cosa che vien da dire relativamente alla storia d’amore tra il Toro e il suo allenatore è che tutto deve finire, anche le cose belle. Che il saggio Giampiero pensi seriamente a cosa vuol fare del suo futuro: è ancora in tempo per lasciare una buona eredità tecnica e consegnare ai posteri l’immagine dell’uomo che ha saputo rifare grande il Torino prima di rovinare il ricordo che si avrà di lui. Oppure, e forse ci vorrebbe ancor più coraggio, guardarsi in faccia con obiettività e cambiare l’impostazione del suo gioco così come ha fatto quando è passato dal 4-4-2/4-2-4 al 3-5-2.

In ogni caso, Ventura ha un bivio davanti: questa volta la sua libidine deve per forza consigliarlo per il meglio.