Sei bella come il sinistro di Ioniță

Verona è una città bellissima, ammantata di grazia e sospesa in un limbo misterioso ma equilibrato, tutto italiano, in cui l’antico è costantemente presente a fianco al nuovo. Eppure è innegabile che sotto le candide vesti cittadine riposi un cuore tumultuoso, pronto ad accendersi da un minuto all’altro e sempre in procinto di essere trascinato nel vortice della passione, spesso originato dalle continue divisioni intestine.

La letteratura stessa, del resto, ci ha consegnato un ritratto della città scaligera in cui è lo scontro fratricida a dominare sul resto del panorama: proprio Shakespeare ci racconta della faida tra Montecchi e Capuleti attraverso il sommo sacrificio delle due vittime destinate a essere immolate sull’altare della causa ingiusta, Romeo e Giulietta. Ecco, ieri è stata una di quelle giornate in cui a Verona tornano prepotentemente a dominare il dissidio, l’attrito, il conflitto. Perché Hellas-ChievoVerona ovviamente non può essere un evento circoscritto al solo stadio.

Il derby gialloblù è stato per decenni interi semplice fantascienza, al punto che solo i maniaci delle serie minori o i più attenti collezionisti di figurine Panini sapevano che nella città dell’Arena ci fossero non una ma due squadre. Del resto stiamo parlando di un club che fino a trent’anni fa calcava ancora i campi parrocchiali o poco più. Per ironia della sorte, il Chievo è diventato finalmente una società di livello professionistico esattamente un anno dopo la realizzazione dell’utopia di Bagnoli, con la città in tripudio per uno scudetto che sapeva più di miracolo che non di impresa sportiva. Allora non c’era alcuna tensione tra le tifoserie, anzi: nel 1994 i tifosi dell’Hellas accompagnarono i concittadini nella trasferta decisiva per l’approdo in B.

Solo ventun anni fa, quindi, s’è giocato il primo derby e tuttora la situazione ambientale è francamente impari: da un lato tradizione, blasone, imprese e vittorie ricordate ancora oggi il cui vanto viene menato in continuazione da una delle tifoserie organizzate più feroci (in entrambi i sensi) d’Italia; dall’altro pochi, sparuti, tifosi completamente dalla mentalità ultras che invece permea i loro dirimpettai – spesso bersaglio di facili ironie dato il numero esiguo – che sostengono una realtà solida come il marmo, decisamente meno romantica dei rivali cittadini ma capace di una continuità sconosciuta dall’altro lato dell’Adige (perlomeno negli ultimi quindici anni).

Se dovessero chiedermi come si dividerebbero il tifo, oggi, Romeo e Giulietta direi che la rassicurante Capuleti sarebbe del Chievo mentre l’aggressivo Montecchi non potrebbe non essere un curvaiolo dell’Hellas.

Anzi, probabilmente proprio uno come Romeo sarebbe uno dei più infervorati sostenitori del fatto che “vincere a ogni costo” è un dovere morale col Chievo e senz’altro il giovane cantato dal Grande Bardo figurerebbe tra quanti ritengono che i clivensi non siano altro che semplici usurpatori dei simboli e dei colori cittadini, quali la Scala e la dicromia gialloblù, dei quali l’Hellas si considera l’unico portabandiera autorizzato. È intorno esattamente a questa questione che, negli ultimi anni, il clima del derby dell’Arena s’è arroventato fino a diventare una rivalità vera. Del resto ai veronesi piace dividersi, l’abbiamo sostenuto dall’inizio, e anzi in questo caso ci hanno anche messo fin troppo tempo.

Quella andata in scena ieri, per l’appunto, non ha avuto nulla della “sfida all’insegna dell’armonia”, com’è stata il derby scaligero fino a una decina d’anni fa: le compagini hanno giocato col coltello tra i denti, complice anche la sciagurata situazione di classifica degli uomini di Delneri – che, guarda un po’, dopo aver posto le solide basi di quello che oggi chiamiamo ‘fenomeno ChievoVerona’ oggi deve salvare i cugini –, bisognosi più che mai di far punti. I ragazzi di Maran, inebetiti dall’aggressività dell’Hellas, sono riusciti a tornare perlomeno con la mente in partita nella ripresa ma hanno dovuto soccombere definitivamente prima per colpa del rosso di Spolli e poi al fantastico sinistro di Artur Ioniță, probabilmente l’uomo più in forma di tutta la squadra in questo 2016. Il computo finale dice: quattro gol, due rigori, due rossi. Un bel derby, di buona intensità e con la garra che ci piace vedere in una stracittadina a prescindere da chi vinca. Nessun protagonista è rimasto escluso: Pazzini, Toni, il vecchio leone Pellissier, sono tutti andati a segno.

Ora il Verona può credere un pochino di più al sogno salvezza (e solo grazie alla pochezza delle squadre tra l’Udinese – compresa – e quelle subito dietro) mentre i cugini possono seguire a dormire sonni tranquilli pur con la consapevolezza che i nove punti che servono per confermare la categoria non verranno certamente da sé e il momento non è dei più brillanti – ma la rosa ha tutto ciò che serve per rialzarsi, naturalmente.

Intanto noi abbiamo avuto i nostri 90’ di fuoco che, in questo tipo di occasioni, vorremmo vedere sempre. Dunque grazie, città di Verona: non sempre ti capiamo e ti piace vivere di fiammate di passione ma quando decidi di montare uno spettacolo basato su lotte fratricida nessuna urbe del mondo è alla tua altezza.

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PS: per inciso, non ho mai avuto un buon rapporto con le tragedie e se ce n’è una di cui avrei sempre voluto cambiare il finale è proprio Romeo e Giulietta. Preferisco immaginarmeli mentre fuggono dalla città senza che nulla sia andato storto, finalmente liberi di poter vivere il matrimonio che ha spaccato un’intera regione. E, col sole del tramonto che fa da sfondo al romantico epilogo della vicenda, non posso resistere alla tentazione di mettere in bocca a Romeo il più strano dei complimenti: «Giulietta mia adorata, sei bella come il sinistro di Ioniță».

PPS: se poi il Montecchi andasse anche in bianco non mi stupirebbe.

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Giorgio Crico