Quando si vive di sole emozioni è molto semplice sentirsi smarriti perché ovviamente esse svaniscono. Per definizione stessa, un’emozione è un sentimento che dura poco, che si basa su una reazione della nostra mente a un evento inaspettato. È momentanea, vola via quando tutto torna in equilibrio. Emozioni ed equilibri – insieme a una forza inarrestabile – definiranno il cinquantesimo Superbowl nella sua essenza, nella sua intimità.
È dal 1998 che Peyton Manning, quarterback dei Denver Broncos, sciorina emozioni. Ha vinto, ha perso, ha lanciato più di tutti nella storia del football, ha inanellato record uno dopo l’altro. A suo modo il suo percorso è stato storico. Ha salvato una intera franchigia, ha reso la carriera di ottimi giocatori addirittura leggendaria, ha fatto sembrare meno scarsi allenatori pessimi. Ha attraversato la NFL con molte parole, tutte opportune, con talento, con un’abnegazione aliena, con una fermezza prodigiosa. Con un talento comprensibile, chiaro, ma inarrivabile.
Si è lasciato tifare, si è lasciato criticare quando ha deluso, si è lasciato andare all’emozione che ognuna delle sue partite ha scaturito anche in noi, che a casa e a migliaia di chilometri di distanza abbiamo percepito.
Ma questa stagione le emozioni sono state spesso negative. Collo, piede, anca. Peyton Manning è da rottamare. I suoi lanci escono male dalla sua mano e, cosa più grave, lo fanno in modo imprevedibile. A volte nemmeno lui capisce cosa stia facendo. Come nella decima giornata, contro Kansas City. Quel giorno il numero 18 più famoso della storia dello sport perde l’equilibrio ma, al posto che propagare un’emozione positiva, banalmente cade. Quattro intercetti, 0.0 di rating (misura con cui si valuta la prestazione di un quarterback), panchina. Nonostante tutto Denver lo aspetta, continuando a vincere con l’apporto di una difesa tra le più forti di sempre. Ritorna se possibile ancora più maturo, a 39 anni e dopo 17 stagioni si accontenta di non mettere i suoi in difficoltà con altri errori gratuiti. È un equilibrista che percorre una highline, cioè una striscia di qualche centimetro di larghezza sospesa a 1000 metri d’altezza. Senza corda: un’altra caduta e la sua carriera finisce senza gloria. Arriva invece al Superbowl di Santa Clara, quello d’oro come il marketing della NFL lo ha brandizzato per caricare la ricorrenza dei 50 anni dalla sua creazione.
Con i Broncos sul campo del Levi’s Stadium ci saranno i Carolina Panthers. Ecco, niente di più opposto alla parabola discendente descritta fin qui. Il loro quarterback è Cam Newton, ha 26 anni, il loro miglior difensore è Luke Kuechly, nato nel 1991; hanno vinto tutte le partite quest’anno tranne una finora. Sono inarrestabili, partono a spron battuto sempre, sotterrando il malcapitato avversario con un divario di 20 o 30 punti nei soli primi due quarti. Tatticamente, atleticamente, caratterialmente non hanno nulla a che fare con la NFL che Peyton Manning trovò nel 1998. Sono favoriti, ammettono di esserlo e non hanno molti problemi a far sapere che stasera questo cambio generazionale sarà inevitabile.
Il cinquantesimo Superbowl inizia a mezzanotte. Se state cercando motivi per stare svegli, immaginate la seguente scena.
Uno dei più grandi sportivi di sempre che cammina a 1000 metri d’altezza, senza sicurezze del caso. I suoi compagni che lo tengono su, mantenendo il filo in equilibrio. Dall’altra parte dei giovanotti senza paura scuotono quel filo, rompono il suo equilibrio, in una reazione a catena di emozioni sotto forma di lanci, corse, palle perse, palle recuperate, touchdown. Se esistesse un solo evento nella storia dello sport che è già emozionante ancora prima di iniziare, è questo.
Chissà che domani mattina, quando tutto sarà finito e Peyton Manning lascerà il mondo del football, non scegliate di vivere altre emozioni e seguire i SuperPanthers per i prossimi vent’anni.
Come tutte le emozioni, si esauriranno anche loro. Nel frattempo avrete imparato ad amare questo sport, e quello è un sentimento che non finisce mai.