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Riprende oggi il Sei Nazioni di rugby. Denominato ufficialmente RBS 6 Nations – per questioni di sponsor – è una delle manifestazioni più antiche che lo sport attuale possa vantare, e già per questo dovrebbe interessarci. Di anno in anno, di esito in esito, è un torneo che non smette di stupire: da quando esiste la Coppa del Mondo ha forse perso, per le nazionali del Vecchio Continente, l’urgenza e la priorità di un tempo, ma scalda i cuori come null’altro.

In particolare per i tifosi, sia in casa che in trasferta, è un’esperienza va ben oltre il rugby: ti immergi in culture diverse, dove non per forza il calcio – soprattutto in Galles – è l’unico sport di massa; ti godi viaggi e conoscenze che altrimenti normalmente non faresti.

Me lo spiego così, tra i vari aspetti, il successo di pubblico che l’Italia continua a ottenere nelle partite all’Olimpico. Le affluenze fatte registrare negli ultimi anni rendono i tempi del Flaminio – invero pionieristici – un lontano (e piccolo) ricordo: Roma e Lazio molto di rado riempiono così tanto il nostro “stadio nazionale”. E figurarsi cosa succederebbe se l’Italia diventasse, un domani, davvero una potenza mondiale.

Tornando allo sport come evento dal vivo, il primo impegno degli azzurri non è banale. Vero che con la Francia non lo è mai (in parecchi sport: Grenoble vi dice qualcosa? E gli anni 1998, 2000 e 2006 nel calcio?), ma proprio stavolta è una data da cerchiare sul calendario: si va allo Stade de France, nel luogo colpito dagli attacchi terroristici di una notte che il mondo dello sport (e non solo) vuol mettere definitivamente alle spalle. Non so se ci si avvicinerà alla suggestione e alle emozioni della Marsigliese a Wembley dello scorso novembre, ma suggestivo dovrebbe essere suggestivo: tornare lì, in quello stadio dopo quello che è successo.

Circa il rugby vero e proprio, l’anno post mondiale non è mai normale. Molti cambiano ct, molti non lo cambiano ma forse sai…, altri vivono un anno zero. Come gli inglesi, affidati all’australiano Eddie Jones: una leggenda, già allenatore degli Wallabies e reduce dall’impresa sul Sudafrica alla guida del Giappone al mondiale. Quella coppa che l’Inghilterra, padrona di casa intenzionata a ripetere i fasti del 2003, aveva preparato per 4 anni; dimenticandosi il presente, l’hic et nunc: a furia di guardare avanti e ragionare, direbbero i sudditi di Sua Maestà, sulla biggest picture, si sono persi un po’ per strada: il 6 Nazioni manca dal 2011, non parliamo del Grande Slam.

Anche per l’Italia è una specie di anno zero, nonostante i veterani più affermati ci siano ancora. Le lodi riservate dalla stampa internazionale a Sergio Parisse confermano la sensazione che abbiamo sempre avuto: giocherebbe ovunque, con qualunque maglia. Difficile trovare un n.8 di quel livello, e da un certo punto di vista è un “peccato” che non abbia potuto toccare le vette dei campioni delle nazionali più forti.

Il percorso che parte quest’anno deve essere di rinnovamento, come confermano gli esordienti schierati da Jacques Brunel per la sfida di Parigi. Il movimento non sta bene, le sconfitte in serie di Treviso in Champions Cup – insieme alla classifica delle due italiane impegnate nel Pro12 – preoccupano, come del resto la differenza, nel livello di attenzione ricevuta, tra il rugby italiano di club e quello per nazionali. Importante far bene, vincere, andare oltre la sconfitta onorevole. Decisivo costruire, noi sì, con lo sguardo anche in avanti: gli italo-argentini non ci sceglieranno più, rumeni e georgiani premono per entrare nell’èlite europea.