La seconda di Spalletti
La prima volta è stata quasi per caso, la seconda sicuramente è per amore. Un po’ romantico, e un po’ in stile Moccia (non è necessariamente un complimento); ma per Luciano Spalletti l’ingrediente principale non è Ponte Milvio con i suoi lucchetti, bensì lo stadio Olimpico con i suoi palloni.
Non lo nego: saputo dell’esonero di Rudi García, ci ho subito sperato. Non è un fatto di tifo, quanto di… aria. Quando avevo alcuni capelli in più, e qualche pensiero in meno, ero a Roma negli stessi anni in cui la Roma arrivava sempre seconda (la prima volta, a tavolino). Ero uno studente universitario, avevo le preoccupazioni di quell’età lì – e anche la testa più idealista, meno fredda, meno atarassica. Un giovane con l’illusione di riuscire a liberarsi dei propri pesi, per camminare sulle proprie gambe. Se ne parlo così, è perché ancora non mi è stato possibile.
Tutto questo, mentre qualcuno, con definitivamente meno capelli di me, guidava una squadra costruita alla meno peggio: la famiglia Sensi aveva finito le riserve di danaro, il caso-Mexès aveva bloccato il mercato della Maggica, e la squadra mancava di alcuni giocatori in ruoli chiave. Meglio ancora: c’era del genio nel fare di necessità virtù. Due nomi, per partire: Totti reinventato centravanti, e l’allora sconosciuto Doni in porta (uno che, per venire a giocare alla Roma, aveva pagato di tasca propria la rescissione dalla Juventude).
Poi di nomi ce ne sarebbero da fare molti altri. Il primo non ve lo aspettate: Prandelli. Era a lui che ci si era affidati dopo il lustro capelliano (con il bisiaco che, in barba alle sue stesse parole, era andato a Torino a vincere scudetti “sul campo”); ma una grave malattia della moglie lo spinse a lasciare l’incarico prima di avere disputato una sola partita ufficiale. Ne è seguita l’annata di Rudi Völler, poi Sella traghettatore per Delneri, infine Conti per chiudere e tirare una riga. E fu Spalletti, che nelle due annate precedenti aveva guidato l’Udinese a traguardi insperati.
Arrivava da un quarto posto in Friuli: piazza piccola, abituata a vedere crescere i giocatori per poi farli partire a suon di soldoni. Occorrono mesi per ingranare in giallorosso: lo spartiacque è la cessione di Cassano, che dà il via a undici vittorie consecutive (incluso un derby). Vacche magre e discreti successi: favorito anche dall’assenza di molti dei veri avversari (a causa della falcidia operata durante Calciopoli). C’era qualità (oltre ai soliti noti, citiamo Panucci, Chivu), quantità (Perrotta, Tommasi), tanta gioventù (Cerci, Rosi, Okaka, ma soprattutto Aquilani), abilità visionaria (Amantino Mancini, Taddei), e la capacità di prendere onesti mestieranti a parametro zero, e portarli alle soglie della nazionale (Cassetti, Tonetto).
Stavolta non è la sua squadra: c’è molta più qualità diffusa, ci sono molte più alternative, e dietro c’è un’idea di gioco ben diversa (e ben lungi dall’essere praticata). Sento parlare di Nainggolan usato come Perrotta, Pjanić che dovrà fare il Pizarro della situazione, De Rossi arretrato in difesa come Mascherano (si noti: l’invenzione è di Prandelli in nazionale, e semmai Luis Enrique in giallorosso).
Tutto come se il ritorno di Spalletti a Roma, di per sé già difficoltoso di suo, debba necessariamente significare un ritorno all’antico, una ripetizione di quanto già visto. E senza calcolare che stavolta la Roma ha una proprietà che fin qui ha speso bei soldini, e che le grandi adesso sono tutte tornate in alto.
È passato qualche anno: il tecnico di Certaldo ha vissuto il calcio russo, il sottoscritto ha vissuto altrove che non a Roma. E d’accordo, contro il Verona è andata così così; ma non speriamo che abbia trovato la quadra già alla seconda partita, e diamo a Luciano il tempo di cucirsi un vestito su misura. Di trovare la giusta quadratura, e magari di ridare la giusta speranza a suon di bel gioco e di giovani. Proprio adesso che, con un campionato così equilibrato, un secondo posto vale decisamente di più.