Faccio una superflua quanto doverosa premessa: Maurizio Sarri ha sbagliato a rivolgersi in quel modo a un collega, utilizzando modi e termini offensivi nel momento in cui Adem Ljajić, lasciato colpevolmente da solo, andava a realizzare la rete del definitivo 0-2. L’adrenalina, la sconfitta casalinga contro una squadra sino a quel momento in crisi e la relativa delusione non possono essere delle attenuanti, specie se sulla carta d’identità le primavere passate sono 57 e hai sempre invocato il rispetto – giustamente, oserei dire – come valore primario della tua persona. Il mio, quindi, non è un tentativo di trasformare il carnefice in vittima e viceversa.
La gogna mediatica, però, no: e in questo Mancini ha sbagliato, non tanto in campo dove valgono per lui le stesse attenuanti citate prima per Sarri, quanto davanti alle telecamere dove avrebbe potuto tranquillamente archiviare il caso e parlare della partita, ciò che dovrebbe maggiormente interessare tutti noi. Il tecnico di Jesi è sempre stato un fine stratega (nel senso buono del termine) e, probabilmente, sta sfruttando nella maniera migliore lo scivolone di un collega che, sino a questo momento, in quel di Napoli non aveva sbagliato praticamente nulla; mentre adesso tutte le certezze a livello mentale maturate in mesi di bel gioco, di tanti gol e una difesa tutto sommato solida potrebbero iniziare a scricchiolare.
Mancini è un grande allenatore, sa benissimo che in questo momento meno si parla dell’Inter e del suo gioco, meglio è per l’ambiente: perché dalle ambizioni scudetto, in poco meno di un mese, si è passati al già più realistico obiettivo terzo posto, perché l’uomo mercato da 30 milioni più bonus, Geoffrey Kondogbia, non è ancora quel tipo di giocatore che Ausilio è andato a strappare ai rivali rossoneri direttamente dal Monaco. Non mancano nemmeno le belle notizie eh, per carità, diamo a Mancini quel che è di Mancini: i nerazzurri visti sino alla scorsa stagione non l’avrebbero mai vinta una partita come questa, perché per sbloccare gare così impantanate serve la giocata del campione e se Stevan Jovetić è a Milano, probabilmente, molto lo si deve all’allenatore ex City. Resta comunque l’incapacità nerazzurra di proporre un gioco costante nei novanta minuti, con gli esterni troppo larghi e troppo distanti dai compagni di reparto per poter anche solo provare una trama centrale e non la solita sovrapposizione in fascia: che non si parli di questo, per Mancini, è manna per un ambiente che viene da 4 punti raccolti in 4 giornate (con due posizioni e 8 punti persi sulla Juventus).
Tornando all’episodio incriminato, perché oggi si parlerà solo di questo, ripeto che è sicuramente un’uscita infelice e poco furba, ma non è di certo la prima volta e non sarà l’ultima. Quante volte abbiamo visto calciatori mandare platealmente a quel paese, a gesti e a parole, direttori di gara e/o avversari, se non addirittura tifosi? Non è un mistero, poi, che il trash talking sia un’arte utilizzata in moltissimi sport, e il calcio di certo non fa eccezione: e non faccio riferimento soltanto ai campi di periferia, perché Materazzi per scatenare quella famosa reazione in Zidane non gli avrà propriamente fatto un complimento. Sono comportamenti altrettanto diseducativi e poco ortodossi, ma allora vanno puniti tutti oppure nessuno, altrimenti non c’è parità di trattamento. Fermo restando che, per il sottoscritto, nello sport (e a maggior ragione in uno di contatto come il calcio) ci sono anche leggi non scritte e cercare di innervosire un avversario fa parte del gioco: sta nell’intelligenza delle persone non cadere nel tranello o, in alternativa, rispondere a modo e con i fatti. Ma finisce sempre – e dico sempre – tutto al triplice fischio, portarsi dietro rancori per frasi dette con l’adrenalina a mille non credo sia la soluzione giusta. Ribadirle davanti alle telecamere, poi, ancora meno.