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Tennis malato, ma non (solo) di scommesse

Inizia male, malissimo, la stagione tennistica 2016, con l’autentica bomba lanciata sul sistema dalla BBC inglese che, senza ancora divulgare nomi (le illazioni già si sprecano), afferma d’essere in possesso di documenti scottanti circa perniciosissime connivenze e manovre a dir poco losche  sul rapporto tra incontri e scommesse. In sé, non si tratta di una novità: è da circa due lustri (il caso Davydenko-Vassallo Argüello, a Sopot, è dell’agosto 2007) che, periodicamente, il bubbone esplode, libera un po’ di pus, per poi riformarsi puntuale. Un elemento, però, rischia di costituire un peculiare salto di qualità: il (pare) certo coinvolgimento di giocatori di alta classifica. Si vocifera almeno d’una quindicina di atleti tra i primi cinquanta del ranking ATP, il che mette a serio repentaglio l’immagine di uno sport e, soprattutto, numerosi albi d’oro, anche illustri, per quanto concerne le ultime stagioni.

A tale proposito, il pubblico sportivo, così fortemente orientato su calcio e poco altro (la sostanziale “sparizione” della racchetta dalla tv in chiaro, primo sport a varcare il guado circa venticinque anni or sono, ha contribuito non poco al fenomeno nel suo complesso), tenderà a derubricar la cosa come “marciume relativo agli altri sport” (non nascondiamo il fastidio quasi fisico provocatoci da queste e altre definizioni, come sport minori), come avviene colpevolmente a proposito del doping nel ciclismo, ignorando come questo sia l’unico sport che cerca davvero di combattere un fenomeno esteso a ogni disciplina: è dove non ci sono casi di positività che si dovrebbero avere davvero sospetti. Si tratterebbe, anche nel presente caso, dell’ennesimo errore, perché proprio dalla situazione del tennis (con gli Australian Open alle porteDown under si parlerà senz’altro più di questo cosa che di tennis, immaginiamo) si possono trarre una serie di indicazioni non banali circa il rapporto tra sport e scommesse.

Sfatiamo subito un mito, al cui offuscamento ha pure contribuito la crisi economica in essere dal 2008: il tennis non è uno sport ricco o, meglio, è “tornato” a essere una disciplina da ricchi. Escludendo le stelle, prevedibilmente ben sostenute dagli sponsor, quella del tennista internazionale è una carriera (brevissima) ad altissimo rischio e ad ancor più elevato costo: dall’entourage che curi allenamento e programmazione (quest’ultima, in uno sport con tornei a eliminazione diretta è fondamentale, si pensi ad alberghi e biglietti aerei aperti) ai viaggi, ogni singolo dettaglio della vita dell’atleta è perennemente incerto, nonché legato al risultato sportivo, vale a dire qualcosa di estremamente labile e non programmabile. Se si pensa che gli stessi problemi sono all’ordine del giorno non solo per i top 100 (gente che guadagna abbastanza, benché, a ragion veduta, non possa scialare), ma anche per tutti gli aspiranti tali, ragazzi che rinunciano a pezzi interi della propria giovinezza aderendo a un sistema di vita che implica rigore e serietà, sarà facile immaginarsi quante persone (e famiglie) si trovino nella condizione di investire molto, moltissimo denaro (intorno ai 50.000€ a stagione, tra vitto e alloggio fuori, allenatori, preparazione e così via), per svariati anni, allo scopo d’inseguire il sogno utopico di un futuro da campione.
Assai diversa, per esempio, la situazione del calcio, dove la presenza di molti più capitali e quella conseguente di strutture articolate per supportare e produrre futuri professionisti (non che sia tutto rose e fiori, tutt’altro: si pensi alla tratta dei giovani africani) fanno sì che sia minore la “solitudine” dell’atleta e la necessità di risolvere in autonomia la gran mole di problemi che un’incipiente carriera comporta.

Si aggiunga, infine, che uno sport individuale come il tennis sia tecnicamente facilissimo da “truccare”: se per orientare una partita di calcio, l’accordo deve per forza comprendere un gruppo, anche minimo di persone, il caso del giocatore che punta contro sé stesso è pressoché impossibile da evitare, se non sulla base d’una massiccia (e utopica) iniezione di cultura sportiva nonché di tranquillità economica. Per quanto, sia dimostrato che l’avidità umana non abbia limiti e non sia sempre dovuta ai morsi del bisogno materiale.
Piccoli tornei (si scommette anche sui Challenge, sui Futures…), con pochissimi spettatori, con quasi nullo impatto sui ranking, rappresentano ghiottissime occasioni di lucro facile, senza neppure la necessità di scomodare l’ombra lunga della mafia (rigorosamente russa cinese, sui nostri giornali: quelle italiane, si sa, sono state sgominate da tempo), che rappresenta senz’altro un (dis)valore aggiunto alla questione.

Cosa vogliamo dimostrare? In realtà niente, dato che, come sempre, non abbiamo soluzioni (altrimenti non scriveremmo). Di certo, le scommesse non sono, di per sé, il Male e, opinione personale ancorché non disinteressata, il fatto che esse siano consentite legalmente permette, quantomeno, un più efficace monitoraggio di fenomeni criminali. Allo stesso modo, il professionismo sportivo è una realtà oggettiva, benché rappresenti in qualche modo una deviazione rispetto al concetto originario di sport (che è, in senso moderno, rigorosamente britannico e figlio della Rivoluzione industriale), e questo spiega perché, in molte discipline, la presenza del denaro (magari ipocritamente in essere da tempo) ha faticato a essere accettata.
Non resta che… amare lo sport, senza però credere alle favole, in attesa che dalla BBC arrivino altre notizie e nella speranza, un po’ fanciullesca, che il campione che preferiamo (augurio esteso anche a quelli di chi legge) ne esca pulito.