Figli di un dieci minore: Pietro Maiellaro, uno zar in Puglia

Pietro Maiellaro da Lucera, classe 1963, cominciò a giocare a calcio dopo aver visto in tv “quel nero che faceva cose meravigliose” ai Mondiali messicani. Il nero era Pelé, l’anno era il 1970, e da quel giorno Pietro Maiellaro scese a giocare in strada, per proseguire poi negli stadi di tutta Italia e non solo.

Carattere forte e fumantino, piede destro dotato di sensibilità affinata dalla lunga pratica infantile di rimbalzi e controlli su qualunque superfice assomigliasse alla proiezione di un campetto, Maiellaro costruì la propria posizione calcistica disseminando gol, magie e inquietudini innanzitutto sui campi del Sud, come messo calcistico nel Regno delle Due Sicilie.
Mossi i primi passi nella sua Lucera e dopo un breve passaggio in quel di Varese, Maiellaro debuttò in serie A con la maglia dell’Avellino a vent’anni, raccogliendo alcuni scampoli di minutaggio, buttato in campo dal tecnico Veneranda.

Ma la prima vera esperienza formativa fu quella vissuta a Palermo, dove nell’84-’85 disputò una stagione da titolare e capì di avere i numeri per far innamorare il pubblico. Nei due anni successivi giocati a Taranto, la fantasia e il carisma di Pietro “lo zar” si consolidarono in serie B, quando con Totò De Vitis formò una delle coppie più pirotecniche del campionato cadetto.

Maiellaro a Taranto era amato e lì aveva trovato una sua dimensione, ma per le necessità economiche del proprio club, nel 1987 si trasferì a Bari, seppure a malincuore. Qui visse le sue stagioni più famose, riconquistando anche la serie A con i galletti. Insieme al brasiliano Joao Paulo – talentuoso dribblomane azzoppato poi da un intervento del doriano Lanna – formò una coppia spettacolare che, sotto la direzione tecnica di Salvemini, regalò numeri e giocate al pubblico di Bari, ben prima di Cassano.

Finchè Maiellaro decise che era arrivato il momento di provare ad alzare l’asticella. Così, nell’estate del ’91, Maiellaro si trasferì a Firenze, dove dopo una stagione ancora vibrava il ricordo di Roberto Baggio e la sete di fantasia ardeva sulle tribune del Franchi.
Nello stesso anno dell’arrivo in viola di un giovane e spaesato Batistuta, Maiellaro non riuscì tuttavia a riprodurre nel nuovo ambiente le magie mostrate in Puglia e dopo un solo anno l’avventura fiorentina si chiuse, senza eccessivi reciproci rimpianti.
Di quell’esperienza tuttavia restò impressa una perla che per qualche minuto fece vacillare il record di imbattibilità del Milan di Capello. Dal suo repertorio infatti, Maiellaro tirò fuori uno dei numeri pregiati, il pallonetto, che eseguì con felpata maestria, infilando il lungo portiere Sebastiano Rossi. Così nel suo racconto: “Eravamo a San Siro. Ricordo che presi palla a centrocampo, saltai un paio di uomini, ero sui quaranta – quarantacinque metri, così vidi con la coda dell’occhio, Rossi appena fuori dai pali, calciai e feci un grandissimo gol. Lo uccellai miseramente. Il giorno dopo tutti i giornali di Firenze a parlare del mio gol e a paragonarmi ad Antognoni”. Nel finale, un dubbio rigore conquistato con astuzia da Van Basten riequilibrò il risultato.

Seguirono altre esperienze in B con Venezia, di nuovo Palermo e poi Cosenza, finché a 32 anni, lo zar decise di cambiare mondo e andarsene in Messico, nell’ UANL Tigres, con cui si levò la soddisfazione di giocare in quello stadio Azteca dove da bambino aveva visto far miracoli Pelé.
L’anno dopo il rientro in Italia, in quel di Benevento e poi via verso il finale di carriera, prima di intraprendere la carriera di allenatore, nelle serie minori.

Un talento innamorato del pallone ma anche della vita, troppo per vivere un’ascesi da atleta, come lui stesso ha poi ammesso nelle interviste rilasciate a quanti tra i giornalisti gli chiedevano se non avesse potuto ambire ad una carriera più alta. In fondo, se tanti sono i rimpianti per le promesse mancate del suo conterraneo Cassano, chissà Maiellaro, con un’altra testa, dove sarebbe potuto arrivare.