Per tutti era lo Special One, per Gianni Mura era lo Specialone tutto attaccato, giocando sul nome e su un certo modo di intendere l’uomo: furbinho, pronto a usare i mezzi d’informazione come grancassa per il suo Ego – e come arma di distrazione per sgravare la sua squadra. Anche con ottimi risultati, come sappiamo.
Del Mourinho italiano, impossibile non ricordare certe cose: ovviamente il cosiddetto Triplete («l’impresa più grande della mia carriera», ipse dixit), per quelli che sono i suoi indubbi meriti. Ma, dall’altro lato, c’è tutta la capacità mediatica del personaggio: a partire dal cognome, perché giornalisticamente scrivere Mou è efficace, immediato e far risparmiare spazio nei titoli; per finire proprio ai titoli, tanti e troppi, che ci ha regalato: dalla prostituzione intellettuale all’area di 25 metri agli sero tituli. Si può discutere se sia un buon modo di lasciare il segno; ma effettivamente lo è, un modo per lasciare il segno.
Anche lontano dall’Italia, la sua vena polemica non si è spenta: Eva Carneiro quale capro espiatorio; il perché-perché-perché-perché ripetuto allo sfinimento; le tante stoccate a Wenger («Una FA Cup in nove anni? Un gran momento per l’Arsenal») o a Guardiola («Ha vinto una coppa di cui io mi sarei vergognato, e potrebbe vincerne un’altra di cui mi vergognerei»), che Pep saggiamente non ha ricambiato (definendo Mourinho allenatore super); e così via. Si è allontanato dai nostri radar, ma non è certo sparito.
Così come tutt’altro che sparito è il suo Ego: gratificato prima da un principesco rinnovo fino al 2019, poi da un risveglio quantomai brusco, se la classifica dice quintultimo posto, a +1 dalla retrocessione; eppure, ancora poco più di due mesi fa Mourinho si era autoincensato, parlando di un «momento decisivo nella storia di questo club perché, se mi esonerano, mandano via il miglior allenatore che abbiano avuto» (cosa ribadita dal Chelsea, nel comunicato d’addio).
Restare prigioniero del personaggio. Meglio: del personaggio, e del proprio modo di interpretare la professione. Dal 2010, Mourinho ha portato a casa una Liga e una Premier, e spiccioli (Coppa del Re e Supercoppa spagnola): stop, fine. In generale, dopo il 2010 non si sono più viste squadre buttarsi compatte e a capofitto sulle idee del tecnico portoghese, non si è più visto un Eto’o fare il terzino (modesto parere: il vero capolavoro); e il gioco della vittima aggressiva non funziona sempre e comunque, anzi non funziona più. A Milano, aveva avuto la saggezza di andarsene via un minuto dopo il Triplete: impossibile fare meglio, impossibile continuare a giocare sperando che il giocattolo non si rompa.
Un ciclo che si chiude, e un valzer delle panchine che si apre: con Guardiola che pare destinato al Manchester City (dove ritroverebbe anche Txiki Begiristain e Ferran Soriano, dirigenti del suo Barcellona prenditutto), Chelsea e Bayern Monaco sono panchine più che appetibili per la folta schiera di grandi tecnici a spasso (solo in Italia, Ancelotti, Capello, Lippi e Spalletti). E chissà mai che non si aprano spazi anche a Madrid, sponda bianca.
Al ritorno al Chelsea, Mourinho aveva scherzato: «Ora chiamatemi the Happy One». Ma per Gianni Mura era sempre lo Specialone, e per tutti lo Special One. E, alla fin fine, è un Normal One: un fuoriclasse che viene giudicato soltanto per i risultati.