L’atletica azzurra tra doping e sciatteria

In Russia, si parla di doping sistemico. Da noi, al massimo, c’è un antidoping antisistemico. Già: perché per i 26 italiani a rischio di squalifica non si può neanche parlare di doping: manca la prova provata, e oltre a questa mancano anche i risultati.

Eh già: perché se altrove almeno facevano le cose in grande, per noi truccare le proprie prestazioni per ottenere un fantastico poco-più-che-niente sarebbe un esercizio di grande italianità, di cui andare fieri. E invece neanche questo: si parla di eluso controllo – nella lotta al doping, non essere reperibili è quasi equiparato alla colpevolezza –, non di pratiche illecite.

Lo ha detto Fabrizio Donato, medaglia di bronzo nel salto triplo a Londra 2012: “Siamo accusati di avere ritardato – di un’ora, di un giorno, di dieci giorni, chi più e chi meno – questa comunicazione di reperibilità”. E di qui c’è uno strano (me anche ovvio) gioco di scaricabarile, di qui e di là: l’opinione pubblica dà contro agli atleti, che danno contro alla FIDAL (la Federazione Italia Di Atletica Leggera), che dà contro alle squadre (principalmente le forze armate), che presumibilmente daranno contro ad atleti e allenatori.

E quindi eccoci con una lista di 26 persone: per Gibilisco sarebbe una seconda punizione dopo il caso controverso del 2007 (due anni di squalifica, assoluzione in appello, nuova condanna dal Giudice di ultima istanza del CONI, assoluzione con formula piena dal TAS di Losanna l’anno successivo), ma soprattutto sarebbe ridicolo in quanto l’astista si è ritirato un anno e mezzo fa (così come ritirati sono anche Bourifa, Campioli, Collio, Donati e Licciardello).

Per altri atleti, però, non si tratta di qualcosa di così innocuo come una squalifica a carriera conclusa (come Zidane post-testata), ma del rischio concreto di dovere rinunciare alle Olimpiadi di Rio. Parliamo di Fabrizio Donato, Andrew Howe (se riesce a tornare…), Daniele Meucci (oro europeo nella maratona), Daniele Greco, Anna Incerti, Ruggero Pertile (ottimo quarto nella maratona agli ultimi mondiali). Parliamo del meglio di un movimento che comunque non vincerebbe niente.

Ai tempi del caso-Schwazer, il presidente della FIDAL parlò di “negligenze, superficialità, incompetenza, inadeguatezza, e chi più ne ha più ne metta”. È stato più di un anno fa, e vorremmo augurarci che le cose siano cambiate. In un post sul suo profilo Facebook, la martellista Silvia Salis ha ricordato quali siano state, fino a non molto tempo fa, le modalità di consegna dei cosiddetti Whereabouts, i moduli che ogni atleta di livello internazionale deve compilare per indicare le proprie reperibilità per i controlli: fino al 2011 andavano inviati via fax, poi si è passati a un sistema informatico che si è rivelato inefficiente. E sinceramente non stentiamo a crederlo.

Il punto è che tutti (atleti, allenatori, dirigenti, società) sanno che è così: un mondo inadeguato. Un mondo che sta facendo di tutto per portare a Rio 2016 un atleta la cui posizione di dopato è stata chiara (parliamo di Alex Schwazer, che oggi peraltro figura tra i 39 atleti non deferiti), ma dall’altro lato non è neanche all’altezza di rispettare un regolamento internazionale. Molti dei 26 atleti accusati, infatti, risultano tra i “campioni” nel non avere spedito i moduli: autocondannati alla presunzione di colpa.

Come mai l’Italia non produce più persone e personaggi degni di nota? Dopo il disastro ai Mondiali di Pechino, in vista di Rio l’obiettivo è soltanto di non ripetere la figuraccia – e anche questa è incompetenza. Avere un talento come Andrew Howe, che in gioventù rivaleggiava con Bolt, e farlo esplodere in rampa di lancio.

Alla fine, tutto torna: in un paese in cui non si è neanche capaci di consegnare dei moduli in modo sicuro e con la giusta tempistica, vogliamo anche immaginare che si sia in grado di cercare, allevare, coltivare campioni che diano lustro alle discipline e alla maglia azzurra? Almeno, il doping sarebbe una cosa seria.

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Pietro Luigi Borgia